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martedì 29 novembre 2011

Cassazione, n. 4368/2009 - Licenziamento, confusione, errore


Cassazione Civile sez. lavoro, 23 febbraio 2009, n. 4368

(OMISSIS)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Su ricorso di N. Antonino, il Tribunale di Roma annullava il licenziamento intimato all’attore dalla srl. S. , ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni maturate medio tempore. Proponeva appello la S. e la Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado così motivando:

- il N. è stato licenziato per avere favorito un cliente battendo uno scontrino non fiscale per un valore inferiore a quello della merce, e ciò sia omettendo di inserire alcuni prodotti, sia forzando per altri manualmente il prezzo;

- secondo l’appellante, trattasi di comportamento grave, per intenzionalità della condotta e la consapevolezza del danno;

- la materialità dei fatti è pacifica, ma non risulta adeguatamente dimostrata la suddetta intenzionalità;

- non vi sono elementi indicativi di un rapporto particolare tra il N. e il cliente favorito;

- il N. non era esperto del reparto salumi, dato che era normalmente addetto al panificio, e nella circostanza trovatasi a lavorare contemporaneamente ai due reparti;

- si è verificata una situazione di possibile confusione; il comportamento del N. , peraltro non intenzionale, è certamente deprecabile e sanzionabile, “ma non al punto da consentire il licenziamento”;

- il fatto va addebitato a distrazione momentanea e scarsa conoscenza delle procedure; esso doveva essere sanzionato con provvedimento di minore entità;

- va parimenti respinto l’appello incidentale, in punto di risarcimento del danno, posto che il Tribunale ha liquidato il danno stesso in misura inferiore a cinque mensilità, in quanto ha tenuto conto del periodo di tempo trascorso tra licenziamento e reintegrazione, nonché dell’aliunde perceptum.

2. Ha proposto ricorso per Cassazione la srl. S. , deducendo due motivi. Resiste con

controricorso N. Antonino.

MOTIVI DELLA DECISIONE


3. Col primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 n. 5 CPC, nonché violazione dell’art. 2697 Codice Civile in punto onere della prova. Dopo avere ripercorso l’iter processuale ed avere evidenziato la pluralità di versioni fornita dal N. , la ricorrente si duole che la Corte di Appello non abbia motivato specificamente circa le critiche avanzate alla sentenza di primo grado. I cinque errori contenuti in uno scontrino non possono essere dovuti al caso. La motivazione dell’agire del dipendente non poteva altrimenti essere spiegata se non con l’intento di favorire il cliente e di nuocere all’azienda. La sentenza di appello ha scaricato l’onere della prova sull’azienda, che è invece gravata della prova del fatto, ma non anche dell’attenuante. Quest’ultima incombe sul lavoratore, il quale tra l’altro era un dipendente esperto “con decenni di pratica”.

4. Il motivo è infondato. La verifica giudiziale sulla correttezza del procedimento disciplinare e sulla sussistenza del presupposto della giusta causa di licenziamento è soggetta a controllo in sede di legittimità unicamente sotto il profilo della motivazione. In tale contesto, l’apprezzamento del giudice di merito in ordine alla gravità oggettiva e soggettiva della mancanza del lavoratore costituisce questione di fatto, la quale deve essere congruamente motivata. Nella specie, il giudice di merito ha ritenuto che il comportamento di un lavoratore il quale abbia errato nel battere uno scontrino non costituisca lesione del vincolo fiduciario a causa della mancanza di (prova della) malafede, mentre ha ascritto il comportamento a incompetenza o confusione. Tale statuizione della Corte di Appello, che muove da un presupposto giuridico esatto di sussunzione della fattispecie nello schema normativo, si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità poiché risulta supportata da una motivazione esauriente e coerente, immune da vizi o lacune logiche. Vedi, ex multis, Cass. 2.11.2005 n. 21213, Cass. 23.2.2005 n. 1604. Nella specie, la Corte di Appello ha ricostruito unitariamente il fatto e ne ha apprezzato la gravità, dichiarandolo punibile con sanzioni disciplinari di minore entità. Non trova quindi ingresso la tesi di un presunto rovesciamento dell’onere della prova, giacché non si trattava di ascrivere al lavoratore la prova di una esimente, ma di ricostruire l’accaduto nella sua materialità e secondo l’elemento intenzionale, il che è stato fatto dalla Corte di Appello senza incidere sulle regole legali di onere della prova (prova che in tema di giusta causa di licenziamento grava comunque sul datore di lavoro).

5. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce omessa motivazione circa un punto decisivo: la Corte di Appello non ha tenuto conto delle diverse versioni fomite dal lavoratore, quali l’uso di un “altro canale”, il cambiamento dei codici, l’inserimento dei prezzi a mano.

6. Il motivo è infondato. Con esso si censura la sentenza di appello per non avere tenuto presente una circostanza di fatto, vale a dire la diversità di versioni giustificative fornite dal lavoratore. Trattasi di censura inammissibile in questa sede. La Corte di Appello ha accertato il fatto storico e ne ha valutato la gravità tenendo conto delle versioni fornite dal lavoratore, finendo per ascrivere il tutto a confusione e inesperienza di un particolare banco (quello delle carni) con motivazione esauriente, immune da vizi logici o contraddizioni, talché essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità

7. Il ricorso, per i suesposti motivi, deve essere rigettato. Le spese del grado seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M. 

La Corte Suprema di Cassazione

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente S. srl. a rifondere al controricorrente N. Antonino le spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 14,00 oltre euro 2.000,00 per onorari, più spese generali, IVA e CPA nelle misure di legge.