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venerdì 20 aprile 2012

Autonomia decisionale del quadro - Cass., sezione lavoro, sent. n. 5474 del 05.04.2012

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Bologna la dott.ssa S.B. ha proposto due specifiche domande che possono così riassumersi:

1) una prima domanda, con la quale ha chiesto che venisse accertato che il suo rapporto di lavoro alle dipendenze della società P. si era protratto fino al mese di luglio 1995 e che, sulla base delle mansioni svolte fino a tale data, aveva diritto al riconoscimento della qualifica e del trattamento economico e normativo di dirigente di azienda industriale a fare tempo dall'I gennaio 1989 fino al 31 luglio 1995, con conseguente condanna della controparte al pagamento di somme specificamente indicate;

2) una seconda domanda, con la quale ha chiesto che venisse accertato che P. aveva esercitato nei suoi confronti indebite ed illegittime pressioni psicologiche (mobbing e bossing) per indurla dapprima al prepensionamento (dal 1 settembre 1994) e successivamente a cessare la sua attività (con la data del 31 luglio 1995), con conseguente condanna della società al pagamento, in suo favore, a titolo di risarcimento danni (mancato percepimento della indennità di preavviso, deterioramento rapporti familiari, danni all'immagine esterna e danni alla posizione di quiescenza), della somma di Euro 155.000,00 (poi ridotta in appello in Euro 150.000,00) o alla diversa somma accertata in causa.

La sentenza di primo grado del Tribunale di Bologna ha integralmente accolto la prima di tali domande, riconoscendo il diritto della ricorrente, per effetto delle mansioni svolte, alla qualifica di dirigente "nel periodo da gennaio 1989 fino a luglio 1996, data dell'effettiva cessazione del rapporto di lavoro", respingendo integralmente la seconda domanda.

Avverso la prima statuizione ha proposto appello P. eccependo che il rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti era cessato alla data del 31 agosto 1994 a seguito della libera e non coartata decisione della dott.ssa S. di avvalersi del c.d. prepensionamento nel corso e nell'ambito della procedura di ristrutturazione, attivata ai sensi della L. n. 416 del 1981, che aveva interessato tutti i dipendenti che avevano maturato i requisiti per potere accedere a tale prepensionamento (cinquant'anni di età e oltre trent'anni di contribuzione); che l'inquadramento riconosciutole (impiegata di 10 livello a fare tempo dall'1 gennaio 1989 e "quadro" a fare tempo dal 1 luglio 1990) era del tutto corretta; che, comunque, le pretese economiche connesse al riconoscimento della qualifica di dirigente a fare tempo dall'1 gennaio 1989 si erano integralmente prescritte; che, infine, tali pretese economiche, nell'importo di Euro 235.000,00 integralmente accolto dalla sentenza impugnata, erano infondate o, comunque, eccessive.

Avverso la seconda statuizione contenuta nella sentenza di primo grado ha proposto appello incidentale S.B. insistendo per l'accoglimento della ulteriore domanda proposta in causa, con conseguente condanna della società al risarcimento dei danni subiti da essa ricorrente, appellante incidentale, quantificati nella somma di Euro 150.000,00 o nella diversa somma accertata in causa. Con tale appello incidentale la difesa S. ha altresì censurato nel sentenza di primo grado nel punto in cui aveva ritenuto applicabile la prescrizione quinquennale (anzichè quella decennale) alle differenze retributive richieste in correlazione al pure richiesto (ed ottenuto in primo grado) riconoscimento del diritto all'inquadramento come dirigente a fare tempo dall'1 gennaio 1989.

Con sentenza del 27 gennaio-21 settembre 2009, l'adita Corte di Bologna, in accoglimento dell'appello principale, ha rigettato la domanda della S., con conseguente condanna della stessa a restituire alla società P. la somma di Euro 431.520,16, oltre accessori dal giorno del pagamento a quello della restituzione. Ha, per converso, rigettato l'appello incidentale proposto dalla S..

A sostegno della decisione ha osservato che dagli elementi probatori acquisiti doveva escludersi lo svolgimento, da parte della S., di mansioni dirigenziali; doveva poi ritenersi cessato il rapporto di lavoro subordinato in seguito alla comunicazione datata 31 agosto 1994, con cui si faceva richiesta di fruire del prepensionamento consentito dalla legge, mentre per il periodo successivo sino al 31 luglio 1995 si era instaurato un rapporto di collaborazione/consulenza. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre S.B. con sette motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. Resiste la P. S.p.A. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso S.B. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 416 c.p.c. e degli artt. 1434 e 1439 c.c. e conseguente omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, nella determinazione della data in cui venne a cessare il rapporto di lavoro subordinato (indicata nel 31 agosto 1994) intercorso con P. SPA, e nella negata coazione della sua volontà nella richiesta di pensionamento anticipato. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 414 e 416 c.p.c., artt. 2095, 2103 e 2126 c.c. ed ancora artt. 1434 e 1439 c.c. e conseguente omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa i fatti controversi e decisivi per il giudizio, relativamente al ritenuto carattere non subordinato della prestazione di lavoro svolto a favore di P. S.p.A, ed a far tempo dal I settembre 1994.

Ciò a seguito del preteso - e non provato - suo consenso a preteso rapporto collaborativo autonomo a termine dal 1 settembre 1994 al 31 luglio 1995 (in stretta correlazione al viziato consenso al prepensionamento) - con palese violazione dell'art. 2103 c.c., u.c..

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 416 e 414 c.p.c. e dell'art. 2118 c.c., per avere la Corte d'appello negato alla dott.ssa S.B. il diritto al periodo di preavviso che le spettava a far tempo dal 31 luglio 1995, nonchè violazione e falsa applicazione delle norme di cui all'art. 2097 c.c., sostituito dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 comma 1, prima parte, comma 2 e comma 3, e art. 5, per non aver rilevato la nullità - anche sotto questo profilo - del preteso patto a termine di pretesa consulenza per il periodo 1 settembre 1994 - 31 luglio 1995, non risultante da atto scritto; - patto preteso - ma applicato unilateralmente dall'azienda, all'unico scopo di eludere le disposizioni riguardanti il contratto a tempo indeterminato, la L. n. 230 del 1962 citata, nonchè l'art. 20 del C.C.N.L. 1991 per le aziende editrici e stampatrici di giornali quotidiani e, comunque, le norme collettive sul preavviso, e, ancora, violazione dell'art. 2103 c.c., u.c..

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2113, 2946 e 2948 c.c. in relazione all'art. 1 Cost., art. 35 Cost., comma 1 e art. 36 Cost., per avere la Corte territoriale ritenuto di non accogliere un'interpretazione costituzionalmente orientata di quei due articoli del cod. civ, così modificando l'orientamento giurisprudenziale che limita a cinque anni la prescrizione dell'azione per conseguire le differenze retributive, dovute per la qualifica superiore; riconoscendo per contro, la prescrizione ordinaria decennale per l'azione rivolta al riconoscimento di detta qualifica, così privando detta azione del suo principale contenuto economico, in applicazione di una norma (art. 2948 c.c.) antecedente all'entrata in vigore della Costituzione Repubblicana.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione de gli artt. 2113 e 2948 c.c. per avere, comunque, a seguito delle violazioni denunciate con i primi tre motivi, ritenuto la decorrenza della prescrizione quinquennale delle differenze retributive reclamata dalla data del 31 agosto 1994 anzichè dalla data del 31 luglio 1995, alle quali date doveva, comunque, essere aggiunto il periodo contrattuale di preavviso, diritto non disponibile a sensi dell'art. 2118 c.c., nonchè violazione della norma del C.C.N.L. dei dirigenti industriali in tema di preavviso (art. 23);

Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e mancata applicazione degli artt. 414 e 416 c.p.c. e del C.C.N.L. 27 aprile 1995 (doc. 141 in atti) e dei precedenti contratti per la stessa categoria succedutisi nel tempo a partire dal C.C.N.L 31 dicembre 1948 recepito con forza di legge nel D.P.R. 2 gennaio 1962, n. 483.

Con il settimo motivo, infine, la ricorrente denuncia violazione e mancata applicazione degli artt. 414 e 416 c.p.c., degli artt. 2099, 2103 c.c. e degli artt. 36 e 37 Cost. per avere la sentenza impugnata rigettato l'appello incidentale dalla stessa proposto, considerando il c.d. "prepensionamento" frutto di libera e volontaria scelta e non invece affetto di coartazione della sua volontà, attraverso illegittime pressioni, consistenti - proprio nell'agosto 1994 - nella minaccia di modificarne le mansioni - declassandole - e nei gravi ingiustificati e ammessi ritardi nel pagamento di somme che erano da tempo dovute, pretendendone preventiva fatturazione malgrado gli inalterati compiti della dipendente.

Il ricorso, pur valutato nelle sue diverse articolazioni, è privo di fondamento.

La Corte d'Appello di Bologna, in accoglimento del gravame proposto da P. S.p.A., ha, con motivazione logica e coerente e, pertanto, incensurabile in sede di legittimità, ritenuto che il rapporto di lavoro subordinato tra le parti fosse cessato alla data del 31.08.1994, a seguito della domanda di prepensionamento avanzata volontariamente dalla dott.ssa S., in applicazione della L. n. 416 del 1981, con proprio atto sottoscritto.

Tale atto è stato riprodotto nei suoi punti essenziali e sottoposto ad attenta analisi da cui sono emerse le ragioni delle dimissioni, derivanti - come espresso dalla stessa S. - dalla comunicazione, fatta dalla Direzione del Personale di un suo trasferimento ad altre mansioni con effetto dall'1 settembre 1994, ritenuto in contrasto con la logica e le esigenze aziendali e lesivo della sua immagine e del suo buon nome, tale da integrare gli estremi di una pressione esercitata per indurla ad usufruire del prepensionamento.

La Corte territoriale si è preoccupata, poi, di accertare se il c.d. prepensionamento deciso dalla dott.ssa S. non fosse stato frutto di una libera e volontaria scelta della stessa, ed avvenuto per effetto di volontà coartata da ingiuste ed illegittime pressioni (bossing), con conseguente diritto di essa dott.ssa S. ad ottenere il risarcimento dei danni subiti, quantificati nell'importo di Euro 150.000,00 o nella diversa somma risultante in causa.

In proposito il Giudice d'appello è pervenuto alla conclusione della infondatezza dell'assunto "non essendovi in atti la prova (di cui era onerata parte ricorrente-appellante incidentale) di tale asserite illegittime ed ingiuste pressioni". Nessuna prova in tale senso poteva, infatti, essere desunta dalle dichiarazioni dei testi escussi in primo grado atteso che nessuno di loro aveva rilasciato dichiarazioni che in qualche modo potessero, anche solo indiziariamente, corroborare quanto affermato in causa dalla dott.ssa S.. Nessun elemento di prova in tale senso poteva, inoltre, essere desunto dalla documentazione prodotta dalla difesa S., trattandosi di documentazione tutta redatta e sottoscritta proprio da essa dott.ssa S., con conseguente sua inidoneità a provare in causa quanto allegato da tale parte.

Va in proposito rammentato che la valutazione delle risultanze istruttorie è riservata al giudice di merito e costituisce un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ove - come nella specie - congruamente motivato. Devesi, ancora puntualizzare, costituendo specifico motivo di gravame, unitamente a quello ricondotto al vizio di violazione di legge, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. S.U. n. 13045/97) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

Con riferimento al periodo 1 settembre 1994- 31 luglio 1995 la Corte territoriale ha osservato che non vi era prova in atti che la prestazione di lavoro sicuramente fornita dalla dott.ssa S. in favore di tale società (circostanza, questa, mai contestata dalla difesa di tale società che aveva sempre contestato esclusivamente la natura subordinata della tale prestazione di lavoro svolta dalla dott.ssa S. dall'1 settembre 1994 fino al 31 luglio 1995) avesse avuto e presentato il tratto costitutivo, essenziale della subordinazione, vale a dire l'assoggettamento al potere direttivo, organizzativo, gerarchico e disciplinare di P., manifestatosi in ordini specifici e tassativi e, nel contempo, in una costante attività di controllo e vigilanza del lavoro svolto dalla S. in tale arco di tempo.

Sul punto la Corte ha correttamente ritenuto che l'onere di prova gravasse su parte ricorrente, trattandosi di un elemento costitutivo della sua domanda, non certo su P. che, al contrario, aveva costantemente dedotto in causa la esistenza - sempre ovviamente con riferimento al periodo 1 settembre 1994 - 31 luglio 1995, di un semplice rapporto di collaborazione tra le parti, con la S. "in veste di consulente per le acquisizioni all'estero delle forniture di carta e materiali".

Nè la presenza dell'elemento essenziale della subordinazione poteva desumersi dalla documentazione in atti, deponendo, al contrario, tale documentazione - analiticamente esaminata- per la esistenza di un rapporto di collaborazione tra le parti, privo di ogni forma di (perdurante) subordinazione della dott.ssa S. nei confronti di P..

Pertanto, - sempre secondo la Corte di merito - il rapporto di lavoro subordinato esistente tra le parti doveva ritenersi cessato alla data del 31 agosto 1994, mentre a far tempo dall'1 settembre 1994 si era instaurato tra le stesse parti un rapporto di collaborazione/consulenza della durata di 11 mesi e, quindi, venuto a cessare senza necessità di alcun preavviso alla data del 31 luglio 1995, così come pattuito.

In ordine alla questione concernente l'espletamento, da parte della ricorrente, di attività dirigenziali, con conseguente diritto a percepire le richieste differenze retributive, la Corte d'appello ha osservato che l'attività di lavoro svolta dalla S. corrispondeva esattamente al riconosciutole inquadramento come quadro, non sussistendo, al contrario, i requisiti per il riconoscimento della qualifica dirigenziale; e ciò a differenza di quanto ritenuto dal primo Giudice, la cui decisione, avallata dalla difesa della S., è stata sottoposta a dettagliata critica.

A tale conclusione la Corte d'appello è pervenuta, considerando, in primo luogo, che l'elemento della autonomia operativa e decisionale costituisce tratto professionalmente tipizzante anche della categoria del c.d. quadro, con la conseguenza che dalla decisione di primo grado dovevano essere illustrati i motivi per cui l'autonomia operativa, di cui godeva la dott.ssa S. sarebbe stata propria di un dirigente e non di un quadro e ciò alla luce di quanto previsto dal CCNL dipendenti delle azienda stampatrici ed editrici in virtù del quale il 10 livello della carriera impiegatizia viene concesso al personale che "svolge funzioni direttive con l'operatività all'interno del ciclo di produzione o dell'intero comparto amministrativo e commerciale dei quali coordinano l'andamento funzionale ed organizzativo con ampia discrezionalità di poteri per l'attuazione delle direttive generali ricevute (responsabilità di più uffici collegati con compiti di particolare rilevanza, responsabile di più settori portanti di produzione) e responsabilità gerarchica decisionale", con l'ulteriore precisazione che, con riferimento ai c.d. quadri, in aggiunta a quanto sopra vi è la specificazione che gli stessi operano " alle dirette dipendenze della direzione aziendale svolgendo, con carattere di continuità, funzioni direttive di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e della attuazione degli obiettivi d'impresa, partecipando in condizioni di piena autonomia alla gestione delle risorse aziendali".

A tutto ciò doveva aggiungersi l'osservazione che, secondo il consolidato, condiviso orientamento giurisprudenziale la qualifica di dirigente è caratterizzata da autonomia e discrezionalità delle decisioni e dall'assenza della dipendenza gerarchica nonchè dall'ampiezza delle funzioni, tali da influire sulla conduzione della azienda (v. ad es. Cass. n. 9307/2001) e che spetta soltanto al prestatore che, come una sorta di alter ego dell'imprenditore, è preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa e sia investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nella osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo della azienda, assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello, con la conseguenza che tale figura si differenzia da quella dell'impiegato con funzioni direttive o del quadro che è preposto ad un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto e che svolge la sua attività sotto il controllo dell'imprenditore o di un dirigente, con poteri di iniziativa circoscritti e con corrispondente limitazione di responsabilità (cfr. ad es: Cass. n. 27474/2006) Nella specie, era risultato che la S. era preposta all'ufficio Acquisti al quale era assegnato il sig. O. (impiegato di 6 livello) e che la stessa dott.ssa S. operava alle dipendenze di un dirigente di P. rapportandosi per le decisioni da assumere in particolare al dott. So. (e anche all'ing. M.), ma con la specificazione che la decisione finale in ordine ai vari affari e contratti necessari per il buon andamento dell'Ufficio Acquisti era, comunque, di competenza di uno di tali dirigenti. In tal senso deponevano le dichiarazioni dei testi escussi.

Cosi operando la Corte territoriale ha mostrato di adeguarsi all'orientamento di questa Corte alla cui stregua nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato non si può prescindere da tre fasi successive, e cioè, dall'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda (ex plurimis, Cass. n. 20272/2010).

L'esclusione dello svolgimento di attività dirigenziale, da parte della S., assorbe la questione concernente la decorrenza ed il termine di prescrizione (se decennale o quinquennale) dei pretesi crediti retributivi, nella specie, ritenuti dal Giudice a quo insussistenti.

Non ravvisandosi nell'iter argomentativo adottato dalla impugnata sentenza le violazioni ed i vizi contestati con le proposte censure, il ricorso va rigettato. Stimasi compensare tra le parti, le spese del presente giudizio tenuto conto delle difficoltà interpretative degli elementi di fatto, che hanno contrassegnato la vicenda in oggetto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.