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mercoledì 30 maggio 2012

Lavoro agricolo e prescrizione - Cass., sez. lavoro, sent. n. 12872 del 16.12.1995

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 15 aprile 1991, A. M. proponeva appello avverso la sentenza con la quale il Pretore di Albano, in parziale accoglimento della domanda proposta da S.S., lo aveva condannato al pagamento della somma di L. 6.085.200, oltre rivalutazione secondo gli indici ISTAT, a titolo di differenze retributive dovute per il lavoro di bracciante agricola svolto dalla S. dal 1967 al 1984 nell'azienda agricola di cui lo stesso A. era titolare.

In particolare, l'appellante deduceva la nullità della sentenza impugnata per avere il Pretore omesso di motivare sulla domanda proposta dalla S. con un successivo ricorso, riunito al precedente, col quale era stata formulata una domanda di pagamento di differenze retributive relativamente al periodo successivo al 1978, anno nel quale lo stesso A. era subentrato nell'azienda paterna presso la quale, in precedenza, la S. aveva già lavorato.

Deduceva, quindi, la propria carenza di legittimazione passiva per la parte della domanda che riguardava il rapporto di lavoro svolto dalla S. alle dipendenze dell'azienda agricola del padre dell'appellante, deducendo che, erroneamente, il Pretore aveva ritenuto essersi nella fattispecie verificato un trasferimento d'azienda tra padre e figlio ai sensi dell'art. 2112 cod. civ..

Eccepiva, pertanto, la prescrizione dei crediti vantati dalla S. per il periodo anteriore al 1979; lamentava, inoltre, che il Giudice di primo grado aveva ritenuto applicabile al rapporto di lavoro la normativa economica del contratto collettivo di categoria, senza tener conto degli usi vigenti nella zona e, infine, deduceva che il Pretore aveva preso in considerazione un numero di giornate lavorative superiori a quelle effettive.

Con sentenza del 17 agosto 1991, il Tribunale di Velletri rigettava integralmente l'appello e condannava l'appellante alla rifusione delle spese processuali.

In particolare, i giudici del gravame ritenevano corretta la decisione del Pretore che aveva riunito al primo giudizio, promosso dalla S., quello proposto col secondo ricorso, di contenuto analogo, con cui la ricorrente aveva precisato che, erroneamente, nel primo ricorso, l'A. M. era stato indicato quale unico datore di lavoro, atteso che il rapporto si era svolto alle dipendenze di A. Trieste dal 1967 al 1978 e, successivamente, alle dipendenze del figlio.

Osservava altresì che il primo giudice aveva ampiamente motivato sull'applicabilità, alla fattispecie, della disciplina codicistica in materia di trasferimento di azienda (art. 2112 cod. civ.) e riteneva di dover condividere le conclusioni alle quali il Pretore era pervenuto, osservando che, nonostante la mancanza delle fasi della "trasformazione e vendita del prodotto", non poteva contestarsi la sussistenza, nella fattispecie, di un'azienda agricola, atteso lo svolgimento di attività relative alla coltivazione della terra ed alle lavorazioni ad essa connesse, complementari ed accessorie, quali la cura delle piante, l'irrigazione e la conservazione dei prodotti agricoli. Nella specie, con il passaggio della titolarità dell'azienda agricola dal padre al figlio, la struttura aziendale e la natura dell'attività erano rimaste inalterate ed il rapporto tra la S. e A. Trieste era proseguito col figlio di quest'ultimo senza soluzione di continuità.

A questo proposito, osservava che, dalle prove testimoniali, era risultato che, nonostante la formale cessazione di tale rapporto alla fine di ciascun periodo lavorativo e la formale ripresa dello stesso nell'anno successivo, fra le parti si era realizzato, in realtà, un rapporto continuativo a tempo indeterminato per cui, non essendo esso assistito dalla c.d. stabilita reale (in assenza dei presupposti di applicazione della legge n. 300 del 1970), il termine prescrizionale poteva cominciare a decorrere soltanto alla cessazione del rapporto stesso.

Per quanto concerne, poi, il problema della sussistenza del credito retributivo, osservava che l'A. non aveva fornito alcuna prova sulla sussistenza di usi locali e che, pertanto, stante l'inammissibilità di una pattuizione peggiorativa rispetto a quella fissata in sede provinciale o regionale, ben poteva farsi riferimento, ai fini dell'adeguamento della retribuzione ai parametri indicati nell'art. 36 della Costituzione, alla contrattazione collettiva del settore, pur in mancanza di adesione dell'impresa a tale contrattazione.

Riteneva, infine, corretta, sulla base delle risultanze testimoniali, la conclusione del primo giudice in ordine al numero delle giornate lavorative della S., rilevando che la prova, articolata dell'A. per la prima volta in appello e relativa alla circostanza che la S. avrebbe lavorato anche presso terzi, doveva ritenersi inammissibile, ai sensi dell'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ..

Avverso tale decisione l'A. ha proposto ricorso per cassazione, con sette motivi di censura.

L'intimata non si è costituita.

Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 132, n. 4, cod. proc. civ., in riferimento all'art. 161, primo comma, ed all'art. 360 n. 3, 4 e 5 dello stesso codice, il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere affermato che il Pretore, "trattando l'unico punto in cui le questioni trattate nel secondo ricorso differivano da quelle del ricorso originario, avrebbe adempiuto all'onere di motivazione".

Assume che il giudice dell'appello non ha, però, considerato che il Pretore "non ha detto o riferito alcunché sul secondo ricorso", né sulle difese allegate da esso resistente.

Il motivo è infondato.

Il Tribunale, dopo avere rilevato che i due ricorsi presentati, in date successive, dalla S. erano stati dal Pretore riuniti per connessione e che, con il secondo ricorso (depositato il 16.7.1985), la stessa S. aveva precisato che Mario A. era stato, nel primo ricorso, "erroneamente indicato quale unico datore di lavoro", ha evidenziato che il giudice di prima istanza aveva "ampiamente trattato l'unico punto (quello dell'applicabilità dell'art. 2112 c.c.) in cui le questioni dedotte con il secondo ricorso differivano da quelle del ricorso originario".

In questa chiave ricostruttiva, il Tribunale di Velletri non merita alcuna censura, poiché la motivazione per relationem non determina l'inesistenza della sentenza e non è deducibile in sede di ricorso per cassazione avverso la decisione di appello (Cass. 28.1.1987 n. 821).

Con il secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 273 e 274 cod. proc. civ., nonché omessa motivazione, il ricorrente deduce che la riunione dei giudizi è stata disposta in mancanza dei presupposti di legge, ed anzi in presenza di errori ed omissioni procedurali di parte ricorrente, sottolineando che tale vizio era stato tempestivamente eccepito in sede di gravame.

Anche il secondo motivo è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, avuto modo di rilevare che la riunione, in un unico processo, di più cause pendenti dinanzi allo stesso giudice, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito e non è suscettibile di sindacato in cassazione (Cass. 18.3.1966 n. 766; Cass. 19.10.1966 n. 2558; Cass. 20.6.1968 n. 2048; Cass. 15.6.1973 n. 1736; Cass. 6.1.81 n. 62; Cass. 21.1.1987 n. 518).

Con il terzo e settimo motivo, che, stante la loro evidente connessione, debbono essere esaminati congiuntamente, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 cod. civ., insufficiente e contraddittoria motivazione (terzo motivo), nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo (settimo motivo).

Il ricorrente, premesso che il trasferimento d'azienda (che, ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., determina la prosecuzione del rapporto con l'acquirente e l'obbligazione solidale di quest'ultimo per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento) postula l'esistenza di un'impresa ed il trasferimento di essa ad un diverso titolare, deduce che, nella fattispecie in esame, non si erano verificati i suddetti presupposti, sia perché l'attività agricola, direttamente, come nel caso concreto, non determina la sussistenza di un'azienda (apparendo, al riguardo, erroneo il richiamo, fatto dal Tribunale, alla definizione di azienda agricola data dall'art. 206 D.P.R. n. 1124 del 1965), sia perché il trasferimento aveva riguardato soltanto il suolo, che, infatti, era stato venduto, e non già le attrezzature per la coltivazione; a tale trasferimento, del resto, erano rimasti estranei tutti gli altri rapporti che facevano capo al venditore.

Rileva altresì che a diverse conclusioni non poteva pervenirsi in relazione al rapporto di parentela esistente fra venditore ed acquirente del terreno. Sotto altro profilo, deduce che, nella fattispecie, non si è verificato nemmeno l'ulteriore presupposto costituito dalla continuazione delle prestazioni lavorative, essendovi stata unicamente una successione cronologica di rapporti di lavoro. Allega, altresì, un'erronea valutazione delle prove da parte dei giudici del gravame, che "hanno dato prevalenza ad esiti testimoniali incerti, di comodo e comunque contrastati da diverse acquisizioni orali" (terzo motivo).

Deduce, infine, la carenza di motivazione con particolare riferimento alla ritenuta continuità del rapporto, alla sussistenza di un trasferimento di azienda, ed al calcolo delle giornate effettivamente lavorate (settimo motivo).

Entrambe le doglianze sono infondate.

Per consolidato indirizzo giurisprudenziale - come è noto - si ha trasferimento di azienda, regolato dall'art. 2112 c.c. (nel testo antecedente alle modificazioni recate dall'art. 47 della legge 29 dicembre 1990 n. 428), allorquando - permanendo inalterata la struttura organica dell'azienda (o del ramo autonomo di essa separatamente alienato) - muti soltanto la persona del titolare, e qualunque sia lo strumento tecnico-giuridico utilizzato per ottenere tale sostituzione (Cass. 10 marzo 1992 n. 2887; Cass. 22 febbraio 1992 n. 2205; Cass. 29 maggio 1993 n. 6016; Cass. 14.7.1993 n. 7795).

Gli elementi di tale fattispecie possono essere ravvisati quando sia accertata non solo la continuità delle prestazioni lavorative, svolte alle dipendenze prima di un imprenditore e poi di un altro titolare nei medesimi locali, ma anche l'identità di strutture e di oggetto delle due attività e, quindi, il passaggio all'impresa subentrante del complesso di beni e di strumenti inerenti all'impresa (Cass. n. 7795/91 cit.).

Ed, ai fini della configurabilità dell'azienda agricola, occorre aggiungere che un altrettanto consolidato indirizzo di questa Corte ritiene che la nozione di imprenditore agricolo, tanto ai sensi dell'art. 2135 cod. civ., che ai sensi degli artt. 206 e 207 D.P.R. n. 1124 del 1965, è rigorosamente delimitata all'esercizio di attività diretta alla coltivazione del terreno, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e alle attività connesse che rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura (Cass. 13.6.1986 n. 3940).

Orbene il giudice di merito ha esattamente ritenuto che la "coltivazione della terra e le lavorazioni ad essa connesse, complementari ed accessorie, quali la cura delle piante, l'irrigazione, la conservazione dei prodotti agricoli" integrino gli estremi dell'azienda agricola nella fattispecie concreta, nella quale "nel fondo di proprietà di A. Trieste, prima, e dell'appellante, dopo, veniva effettuata la coltivazione del vigneto con l'ausilio di braccianti e di adeguate attrezzature". Ed ha correttamente configurato nella vendita ("passaggio") di detto fondo dal sig. Trieste A. al figlio, sig. Mario A., l'ipotesi dell'art. 2112 c.c., avendo evidenziato che l'acquirente del fondo, come già l'alienante, se ne avvalse per l'esercizio dell'impresa agricola (art. 2135 c.c.) e che, nel fondo stesso, come già rilevato, venne svolta ininterrottamente, prima e dopo l'alienazione, la coltivazione del vigneto con l'ausilio di più braccianti e mediante idonee attrezzature.

In siffatta corretta prospettiva, dunque, il criterio adottato dal giudice di merito è esente da critiche, non apparendo inficiato da vizi logici e giuridici.

Quanto, poi, all'effetto della continuazione dei rapporti di lavoro con l'acquirente dell'azienda (à sensi dell'art. 2112 c.c.), è qui sufficiente notare che, in linea teorica, esso si produce "ipso iure" se ed in quanto resti accertata in concreto la persistenza del rapporto dedotto (cfr. Cass. n. 6016/93 cit.). Né a diversa conclusione può pervenirsi, considerando la deduzione del ricorrente secondo cui (settimo motivo) la sentenza impugnata sarebbe carente di motivazione con particolare riferimento al calcolo delle giornate effettivamente lavorate ed avrebbe erroneamente valutato le prove (terzo motivo).

Il giudice di merito ha ritenuto sufficientemente provato che il numero delle giornate lavorative per anno, effettuate dalla S., non avesse, comunque, superato le 57, ed ha fondato il suo convincimento sulla base di prove testimoniali espletate in primo grado, relativamente alla natura, a tempo determinato e continuativo, del rapporto della S..

I rilievi, fatti dal resistente, risolvendosi in questioni di merito, concernenti l'effettivo numero di giornate lavorative annue e la credibilità dei testi, devono essere ritenuti inammissibili in questa sede di legittimità (v. Cass. 4 febbraio 1993 n. 1377).

Con il quarto motivo, denunciando violazione dell'art. 2955, n. 2, cod. civ. in riferimento all'art. 1, lett. a) della legge 18 aprile 1962 n. 290 (NDR: così nel testo), il ricorrente, premesso che i rapporti di lavoro in agricoltura, soprattutto quelli concernenti i braccianti avventizi, sono normalmente a tempo determinato, e che l'eventuale diversa volontà delle parti deve risultare da atto scritto ovvero può essere desumibile dalla effettuazione di oltre 180 giornate di lavoro presso la stessa azienda nell'arco di un anno, deduce che, nella fattispecie in esame, per ammissione degli stessi giudici, non ricorreva alcuna delle suddette ipotesi derogative; pertanto, non essendosi verificato un rapporto lavorativo unico e continuo, il termine prescrizionale relativo al diritto alla retribuzione doveva decorrere dalla cessazione di ogni singola prestazione.

Il motivo è fondato e va accolto.

Il rigetto di quella eccezione è stato motivato dai giudici di Velletri con la riconosciuta continuità ed unicità del rapporto di lavoro dedotto in lite (non assistito da stabilità reale), rapporto che avrebbe avuto svolgimento, ininterrotto, dal 1967 al 1984, in quanto il medesimo "formalmente cessava ogni anno alla fine di ciascun periodo lavorativo e riprendeva l'anno successivo".

Gli stessi giudici, ad avviso di questa Corte, non avrebbero dovuto trascurare di considerare che i rapporti di lavoro in agricoltura, sia dei salariati fissi che dei braccianti avventizi, sono normalmente a tempo determinato, mentre la previsione a tempo indeterminato di tali rapporti presuppone - secondo il disposto dell'art. 11 D.L. 3 febbraio 1970 n. 7, convertito nella legge 11 marzo 1970 n. 83 (dettante norme sul collocamento dei lavoratori agricoli) - che sia giustificata dalla particolare natura del lavoro da eseguire, talché essa postula il riscontro di una specifica volontà contrattuale diretta all'assunzione del dipendente senza determinazione di tempo (ovvero la ricorrenza dell'ipotesi prevista dalla legge 8 agosto 1972 n. 457 del superamento, nell'anno, di 180 giornate di lavoro presso la stessa azienda); a tali rapporti a tempo determinato (e, quindi, non soltanto a quello dei salariati fissi, secondo l'espressa previsione dell'art. 6 della legge n. 230 del 1962) non si applicano le disposizioni di tale ultima legge, stante la inconciliabilità di essa con il complesso di norme introdotte dal cit. D.L. n. 7 che - pur attenendo prevalentemente alla regolamentazione del collocamento - riguardano anche la disciplina sostanziale del rapporto (Cass. 26 giugno 1991 n. 7191; Cass. 10 agosto 1991 n. 8767).

Pertanto, con riguardo ad attività lavorativa stagionale, quale quella del bracciante agricolo avventizio, il decorso della prescrizione dei diritti maturati dal lavoratore in una determinata stagione, a partire dalla cessazione delle relative prestazioni, può restare escluso, in relazione alla circostanza della successiva riassunzione del lavoratore medesimo per un nuovo ciclo stagionale, solo in presenza di specifici elementi che evidenzino, anziché una pluralità di rapporti a termine, un unico e continuativo rapporto di lavoro, caratterizzato dalla permanenza del vincolo obbligatorio fra le parti nonostante l'intervallo fra l'una e l'altra attività stagionale (ex plurimis: Cass. 16 dicembre 1983 n. 7444).

La sentenza impugnata non si è uniformata ai principi di diritto, ora enunciati, e merita, quindi, la censura che le viene mossa con il quarto motivo del ricorso.

Infondata è, invece, la censura prospettata con il quinto motivo. Con esso, denunciando violazione degli artt. 36 Cost. e 115, secondo comma. cod. proc. civ., il ricorrente, premesso che l'applicazione della disposizione di cui all'art. 36 della Costituzione richiede il previo accertamento della insussistenza della proporzionalità e della sufficienza della retribuzione percepita dal lavoratore, deduce che i giudici del merito hanno del tutto omesso tale accertamento, essendosi limitati ad applicare i minimi retributivi previsti dal contratto collettivo, non vincolante fra le parti, sull'erroneo presupposto che tale retribuzione corrisponda a quella di cui alla norma costituzionale prima richiamata. Deduce altresì che la sentenza impugnata non abbia attribuito alcun rilievo alla deduzione secondo la quale il datore di lavoro aveva corrisposto una retribuzione mediamente superiore a quella corrisposta nel comprensorio per uguali prestazioni, deduzione fondata sul fatto notorio e non contestata dalla controparte.

I giudici di secondo grado, richiamando e facendo propria la statuizione del Pretore, hanno osservato che la retribuzione convenzionale erogata alla S. fu costantemente inferiore ai livelli retributivi della contrattazione collettiva nazionale dello specifico settore, e da ciò hanno tratto il convincimento della intervenuta lesione del precetto costituzionale e della conseguente necessità di adeguamento del salario convenzionale.

Al riguardo, nella pur concisa motivazione della sentenza del Tribunale di Velletri, non si rinvengono elementi di contraddizione.

Stante la mancata produzione di parametri di altra natura (e muniti di sicura attendibilità), il Tribunale ha correttamente utilizzato, per la determinazione dell'equa retribuzione, i livelli tabellari fissati dalla contrattazione collettiva del settore (Cass. 6 luglio 1990 n. 7095; Cass. 16 febbraio 1989 n. 927; Cass. 4 giugno 1994 n. 5423). E, comunque, esaustivamente, la determinazione dell'equa retribuzione si risolve in una valutazione di fatto, non censurabile in sede di legittimità (Cass. 6 aprile 1992 n. 4200).

Parimenti infondata è la censura contenuta nel sesto motivo del ricorso, con cui si denuncia violazione dell'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ..

Il ricorrente lamenta che il Tribunale ha rigettato, avendola considerata tardiva, un'istanza probatoria concernente l'assunto dello svolgimento, da parte della S., di attività lavorativa presso altri datori tra un periodo e l'altro di lavoro alle dipendenze di esso ricorrente e del suo dante causa.

Deduce che il Tribunale, nel ritenere inammissibile la suddetta richiesta, non ha tenuto conto della indispensabilità del mezzo istruttorio, in quanto attinente al profilo della continuità ed unicita del rapporto. L'art. 437, secondo comma, cod. proc. civ., risulta essere stato correttamente inteso ed applicato dal Tribunale, in quanto, à sensi di detta disposizione, nessun nuovo mezzo di prova è ammesso nel rito del lavoro in secondo grado, con la sola eccezione del giuramento estimatorio, e salvo l'eventuale valutazione di indispensabilità del nuovo mezzo di prova, che deve essere compiuta, anche d'ufficio dal Collegio.

Tuttavia per consolidato orientamento di questa Suprema Corte, la valutazione negativa del Tribunale circa l'indispensabilità del nuovo mezzo può essere anche soltanto implicita (Cass. 26 aprile 1988 n. 3167; Cass. 19 febbraio 1986 n. 989; Cass. 29 maggio 1993 n. 6016); dovendosi specificare che il secondo comma dell'art. 437 cod. proc. civ. attribuisce al giudice d'appello un potere discrezionale, il cui esercizio (anche nel caso di insussistenza di un'espressa motivazione della mancata ammissione di ulteriore mezzi di prova) è incensurabile in sede di legittimità, non ricorrendo, peraltro, il vizio di omesso esame (Cass. 26 aprile 1988 n. 3167).

In conclusione, e per quanto precede, la sentenza del Tribunale di Velletri deve essere cassata in relazione al (quarto) motivo accolto.

Il giudice del rinvio, che si designa nel Tribunale di Frosinone, provvederà al riesame della causa in relazione all'eccezione di prescrizione formulata dall'A., della quale stabilirà la fondatezza in relazione alla sussistenza non di un rapporto unitario e continuativo fra le parti, ma di una serie di rapporti di lavoro a tempo determinato, dando conseguente applicazione al disposto dell'art. 2955 n. 2 cod. civ..

I restanti sei motivi debbono essere rigettati. Al designato giudice di rinvio si rimette la statuizione sulle spese del giudizio di cassazione (art. 385, ult. comma, cod. proc. civ.).

P.Q.M.

La Corte

Accoglie il quarto motivo del ricorso.

Rigetta gli altri motivi; cassa e rinvia anche per le spese del presente giudizio al Tribunale di Frosinone.

Così deciso in Roma l'11 luglio 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 DICEMBRE 1995