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lunedì 24 settembre 2012

Lo stato di malattia del lavoratore, mentre preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso per giustificato motivo, non gli impedisce l'intimazione del licenziamento per giusta causa


Cass. Sezione lavoro, sentenza n. 14206 del 07.08.2012

OMISSIS


Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. Il Tribunale di Foggia con sentenza del 21.07.2008 accoglieva parzialmente il ricorso proposto da P.A., direttore dei servizi amministrativi della Fondazione di R., dichiarando l'illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Fondazione con lettera del 18 febbraio 2006, con condanna della stessa al pagamento dell'indennità di preavviso di dodici mensilità e retribuzione relativa al documentato periodo di malattia. Il Tribunale respingeva le altre domande, riguardanti: a) la reintegrazione nel posto di lavoro; b) l'indennità supplementare; c) il risarcimento del danno conseguente alla perdita del "bonum" di cui alla L. n. 234 del 2004; d) retribuzione relativa ad ulteriore periodo di malattia; e) risarcimento del danno da dequalificazione e demansionamento.

Con riferimento all'illegittimità del licenziamento per giusta causa il Tribunale osservava che dall'esame della copiosa documentazione acquisita agli atti si evinceva che gli importi liquidati a cura del ricorrente nella predetta occasione corrispondevano all'oggetto dell'elargizione concordato, nella riunione sindacale del 14 dicembre 2004, in cui si prevedeva che gli arretrati alla progressione in carriera orizzontale e alle richieste di anticipazione del TFR sarebbero stati liquidati secondo un piano dal gennaio al giugno 2005.

2. La decisione, impugnata con gravame principale da parte del P. ed incidentale da parte della Fondazione, è stata riformata dalla Corte di Appello di Bari con sentenza n. 5533 del 2010, che ha così statuito: a) ha accolto l'appello incidentale della Fondazione, con condanna del P. a restituire le somme percepite in esecuzione della decisione di primo grado, oltre interessi e rivalutazione; b) ha rigettato l'appello principale del P.; c) ha compensato le spese di entrambi i gradi.

La Corte territoriale ha ritenuto provato l'addebito mosso al P. di avere disposto con la busta paga del giugno 2005 l'erogazione a tutto il personale di somme definite "arretrati" e quelle previste nel nuovo contratto per i dipendenti dal servizio sanitario nazionale. Il tutto senza autorizzazione dell'organo competente, atteso che il Consiglio di Amministrazione nella seduta del 30 maggio 2005 aveva autorizzato il versamento di un "acconto", ma non aveva adottato alcuna delibera nel senso dell'automatica applicazione del CCNL, che era stata rinviata a futuri accordi.

La Corte inoltre ha osservato:

- che il P. - già segretario generale - aveva assunto la carica di direttore dei servizi amministrativi, mantenendo in ogni caso la direzione e il coordinamento dei servizi tecnici- amministrativi;

- che lo stesso non aveva subito alcun demansionamento nè aveva provato l'esistenza di atteggiamenti persecutori da parte della Fondazione, tali da configurare il ed mobbing. 3. Il P. ricorre per cassazione affidandosi a diciannove motivi.

Entrambe le parti hanno presentato rispettiva memoria ex art. 378 c.p.c..

4. in via preliminare è da ritenere infondato il rilievo della controricorrente Fondazione circa la novità del riferimento da parte del ricorrente al verbale 14 gennaio 2006, contente la delibera di rientro in servizio del P., risultando tale verbale allegato alla lettera del 17 gennaio 2006 come documento n. 32 dell'originario ricorso introduttivo.

5. Ciò precisato, vanno esaminate le censure contenute nei primi cinque motivi del ricorso.

Con il primo motivo il ricorrente lamenta omesso esame dell'anzidetto verbale 14 gennaio 2006, sostenendo che da esso si desumeva l'esaurimento del potere disciplinare - in relazione agli addebiti mossi dalla Fondazione al dipendente.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge (artt. 1175, 1375, 2104, 2106, 2118 cod. civ.; L. n. 300 del 1970, art. 7; art. 2 del codice disciplinare della Fondazione; art. 35 CCNL), e ciò in relazione al licenziamento intimato dopo che l'azienda aveva deciso per l'archiviazione del procedimento. In sostanza il ricorrente sostiene che l'abbandono delle contestazioni mosse nei suoi confronti aveva fatto maturare in lui un legittimo ed incolpevole affidamento, pieno iure tutelabile.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia le stesse violazioni di legge indicate in sede di secondo motivo (in più viene menzionata la violazione dell'art. 4 del codice disciplinare), sostenendo che non vi era stata alcuna revoca della sospensione cautelare, cui ha fatto riferimento la sentenza impugnata.

Con il motivo terzo bis il ricorrente solleva censura, collegata alle due precedenti, osservando che non vi era stata alcuna revoca della sospensione cautelare ed esso P. era stato riammesso in servizio, sicchè il procedimento di sospensione si era esaurito con il decorso del temine di trenta giorni previsti dall'art. 4 del codice disciplinare.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione sulla revoca della sospensione cautelare, sostenendo che la revoca stessa era stata affermata senza alcuna spiegazione e senza considerare che di essa non si faceva alcuna menzione nella delibera di riammissione in servizio.

Orbene tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente stante la loro stretta connessione, sono fondati nei limiti ed in base alle considerazioni che seguono. Al riguardo l'impugnata sentenza (pag. 11 dal terzo rigo in poi) afferma che è palese l'infondatezza dell'assunto del P. circa l'avvenuta chiusura del procedimento disciplinare, disposta in data 17 gennaio 2006 con la revoca del provvedimento cautelativo e quindi la consumazione in capo all'ente del potere disciplinare, dal momento che nella missiva del 17 gennaio 2006 non vi era alcun cenno a provvedimenti di archiviazione o di non doversi procedere, come invece previsto all'art. 2, punto 7 del codice disciplinare, sicchè non vi erano elementi per ritenere la sussistenza di una volontà abdicativa del datore di lavoro.

Al contrario, ha aggiunto la sentenza impugnata, appare fondato l'assunto della Fondazione, secondo cui la revoca della sospensione cautelare era stata disposta ai sensi dell'art. 4 del codice disciplinare, che prevede la durata massima della misura provvisoria in trenta giorni, termine peraltro già scaduto.

Le motivazioni svolte dal giudice di appello non appaiono esaustive ed appaganti, atteso che dalla lettura del verbale del 14 gennaio 2006 risulta che l'unanimità dei presenti, confermata una valutazione negativa dell'operato del Direttore Amministrativo P., deliberò di "non dare seguito alla contestazione disciplinare, onde permettere alla sensibilità e cura del Presidente la gestione della vicenda secondo le indicazioni ricevute".

Sembra emergere da tale atto in sostanza una volontà dell'organo collegiale di non escludere una risoluzione della vicenda in termini conciliativi, affidandone la gestione al Presidente.

La lettura di tale documento da parte del giudice di appello è carente proprio in relazione alle espressioni usate in esso ("non dar seguito alle contestazioni disciplinari"), richiedendosi pertanto un ulteriore e più approfondito suo esame sia nei termini letterali che logici, nel quadro della complessa vicenda e dei rapporti tra le parti.

6. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 1175, 1325, 2104, 2106, 2118, 2119 cod. civ., art. 35 del CCNL, e ciò in relazione alla tardività della contestazione, effettuata il 6 dicembre 2005, ossia dopo sei mesi dal fatto, ed essendo il superiore gerarchico al corrente della erogazione degli arretrati.

Con il sesto motivo il ricorrente ribadisce il rilievo della non tempestività della contestazione sotto il profilo del vizio di motivazione sulla circostanza che il direttore generale con la nota del 9 giugno 2005 aveva comunicato ai dipendenti l'adeguamento della busta paga del giugno 2005 e aveva sottoscritto i mandati di pagamento, il che denotava che egli era a conoscenza della erogazione degli arretrati I motivi, da esaminarsi congiuntamente perchè si riferiscono allo stesso profilo, sono privi di pregio e vanno disattesi.

Sul punto la sentenza impugnata ha fornito adeguata e coerente motivazione (cfr pag. 10 dal rigo 25 in poi), puntualizzando:

-che il collegio sindacale si riunì nel novembre 2005 per la prima volta dopo l'erogazione degli arretrati del giugno 2005;

-che solo in seguito alla relazione ispettiva il Consiglio di Amministrazione e il suo Presidente vennero a conoscenza dei fatti;

-che, tenuto altresì conto della complessità della struttura della Fondazione, la quale aveva dovuto convocare il consiglio di amministrazione e adottare una delibera sul punto, concedere il termine a difesa e ascoltare di persona l'incolpato su sua espressa richiesta, appariva indiscutibile la tempestività dell'addebito disciplinare e della sanzione, irrogata peraltro nel termine di centoventi giorni dalla contestazione dell'addebito, previsto dal codice disciplinare (art. 2).

Le doglianze del ricorrente si limitano a chiedere un riesame del merito delle circostanze relative alla contestazione dell'addebito in difformità alla valutazione del giudice di appello, il che non è consentito in sede di legittimità con riguardo al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, deducibile soltanto se nel ragionamento del giudice di merito si riscontri un mancato o deficiente esame dei punti decisivi della controversia, il tutto sotto il profilo logico-formale della correttezza giuridica (in tal senso è la costante giurisprudenza di questa Corte). Il che non è ravvisabile nella fattispecie, in cui è chiaramente identificabile il procedimento logico- giuridico posto a base della decisione.

7. Con il settimo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 324, 342 c.p.c. e dell'art. 2909 cod. civ., sostenendo che l'equivalenza dei termini "acconti" e "arretrati", l'esistenza di una transazione conservativa alla base dell'accordo aziendale del 15 dicembre 2004, non adeguatamente impugnata, sono statuizioni divenute definitive, idonee da sole ad escludere l'illegittimità della condotta del P.. Tale profilo viene ripreso e sviluppato dal ricorrente in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., in cui si puntualizza che non sarebbe stata impugnato l'accertamento contenuto nella sentenza di primo grado circa la piena corrispondenza della condotta del P. alle pattuizioni contenute nell'accordo sindacale anzidetto.

Le esposte censure non meritano di essere condivise, giacchè la resistente Fondazione in sede di appello incidentale (pagg. 28 e 29) prese posizione sul punto della decisione di primo grado relativo alla valutazione della condotta del P. in rapporto alle disposizioni del verbale sindacale in questione, ritenendo che il dipendente avesse comunque disatteso le indicazioni ricevute dalla Fondazione.

Sul punto in esame quindi può conclusivamente ritenersi che nessun giudicato si sia formato.

8. Con l'ottavo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 1324 e 1362 cod. civ., lamentando erronea interpretazione delle delibere del C.d.A del 19 maggio e 30 maggio 2005, dalle quali si desumerebbe in particolare la volontà della Fondazione di dare seguito al citato accordo del 25 dicembre 2004 e la perfetta corrispondenza quantiturati ("di importo pari.").

Con il nono motivo il ricorrente solleva analoghe censure di quelle dell'ottavo motivo, eccependo erroneità dell'interpretazione della nota 9 giugno 2005, recante l'intestazione "adeguamento busta paga".

Entrambi motivi sono infondati, limitandosi il ricorrente ad opporre una diversa interpretazione degli atti richiamati rispetto a quella seguita dal giudice di appello; il che non è consentito in questa sede di legittimità, non essendosi evidenziati violazioni dei canoni ermeneutici previsti dalle norme civilistiche.

9. Con il decimo motivo del ricorso il ricorrente deduce vizio di motivazione circa la ricostruzione interpretativa operata dal giudice di appello in ordine all'affermata diversità tra acconti e arretrati, che è in contraddizione con il riconoscimento della corrispondenza dell'entità degli acconti a quella degli arretrati.

Il motivo è infondato, limitandosi il ricorrente a indicare una diversa interpretazione dei termini acconti ed arretrati rispetto a quella seguita dal giudice di appello, che ha fornito ragionevole spiegazione della diversità dei due termini, precisando che il primo (acconti) indica somme che possono anche non essere determinate nel loro preciso ammontare e il secondo (arretrati) implica il pagamento di somme già entrate nel patrimonio del soggetto anche nella loro consistenza quantitativa e rispetto al quale il debitore è in ritardo.

10. Con l'undicesimo motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione circa l'omessa considerazione della circostanza dell'erogazione delle somme in esecuzione di mandati di pagamento a firma congiunta del P. con quella del direttore generale, circostanza che si assume decisiva al fine di affermare l'imputabilità del fatto allo stesso direttore generale.

La censura non ha un suo autonomo rilievo e può essere ricondotta a quella del decimo motivo, ribadendosi quanto detto in precedenza circa il mancato riconoscimento da parte del giudice di appello dell'equipollenza tra acconti ed arretrati.

D'altro canto la sottoscrizione della buste paga del mese di giugno 2005 anche da parte del direttore generale non assume decisiva rilevanza, avendo lo stesso firmato la nota 9 giugno 2005 in cui confermava che con la busta paga di tale mese sarebbe stato corrisposto un "acconto su spettanze contrattuali".

11. Con il dodicesimo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione sulla circostanza non valutata della rispondenza della condotta del P. all'accordo sindacale, che doveva portare ad escludere la gravità della condotta dello stesso.

La censura non ha pregio, in quanto il giudice di appello ha analizzato la condotta tenuta dal P. in tutti i suoi elementi, anche di carattere soggettivo, fornendo adeguata e logica spiegazione.

12. Con il tredicesimo motivo il ricorrente, nel denunciare violazione dell'art. 324 c.p.c. e dell'art. 2909 cod. civ., afferma che l'accertamento, in primo grado, della non idoneità della condotta del P. ad esporre la Fondazione ad oneri maggiori di quelli programmati esclude la dannosità del comportamento.

Questa doglianza, che si collega a quella contenuta nel settimo motivo, è anch'essa infondata, dal momento che la Fondazione sin dal primo grado aveva lamentato le conseguenze derivanti dalla condotta del ricorrente e aveva poi ribadito con l'atto di appello incidentale tale punto.

Il giudice di appello, come già detto, ha esaminato la condotta del P. nei suoi vari elementi ritenendola gravemente lesiva del vincolo fiduciario che legava il dipendente alla società, sicchè l'elemento relativo alle conseguenze dannose non assume, in tale contesto, decisiva rilevanza.

13. Con il quattordicesimo motivo il ricorrente contesta la sentenza impugnata per avere dichiarato che lo stato di malattia, al momento dell'adozione del provvedimento, non precludeva il licenziamento per giusta causa.

Il motivo è infondato.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (tra le cfr Cass. n. 11674 del 2005, Cass. n. 12481 del 2003, Cass. n. 10881 del 2001, Cass. n. 2209 del 1998) lo stato di malattia del lavoratore, mentre preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso per giustificato motivo, non gli impedisce l'intimazione del licenziamento per giusta causa, eventualmente preceduta da una sospensione cautelare, non avendo ragion d'essere la conservazione del posto in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione neppure in via temporanea del rapporto.

L'impugnata sentenza è in linea con tale orientamento e in ogni caso la doglianza del ricorrente si rivolge contro accertamenti di fatto sull'esistenza della giusta causa compiuti dal giudice di appello e forniti di congrua e coerente motivazione, non suscettibili quindi di censura in sede di legittimità.

14. Con il quindicesimo motivo il ricorrente denuncia violazione dell'art. 2103 cod. civ. e dell'art. 35 CCNL, e ciò con riferimento al demansionamento, sussistente a suo avviso, perchè le mansioni a lui assegnate erano inferiori alle precedenti.

Tale motivo è privo di pregio e va disatteso, in quanto il giudice di appello ha ritenuto l'inesistenza del demansionamento, per essere stato adibito il P. di 2003 alle mansioni di "direttore amministrativo" equivalenti a quelle precedenti di "segretario generale", svolte dal 1994 al 2003.

I rilievi del ricorrenti sono volti ad ottenere un riesame della valutazione del giudice di appello, immune da vizi logici e giuridici e come tale non censurabile in sede di legittimità.

15. Con il sedicesimo motivo il ricorrente evidenzia vizio di motivazione sulla ricostruzione della sua posizione lavorativa, se cioè egli fosse nella qualità di direttore amministrativo in posizione subordinata rispetto al direttore generale.

Con il diciassettesimo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 115, 416 e 436 c.p.c. circa l'erronea valutazione della non subordinazione del P., quale direttore amministrativo, rispetto al direttore generale, in persona del Dott. B., valutazione esplicitata nella lettera in data 22 settembre 2003 dal Cardinal S. a Mons. D..

I motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.

Al riguardo va osservato che sulla questione dedotta la sentenza impugnata ha illustrato il sistema organizzativo della Fondazione e coerentemente motivato circa la nuova figura del direttore generale e sulla sua sovraordinazione rispetto al direttore amministrativo. Il che non implicava una modifica del rapporto tra tali organi in termini di subordinazione nè un demansionamento dei compiti attribuiti al P. rispetto al passato.

16. Con il diciottesimo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell'art. 2087 cod. civ. per non avere riscontrato nelle reiterate "sollecitazioni" alle dimissioni da parte del datore di lavoro una ipotesi di utilizzazione strumentale del potere disciplinare di recesso, in un quadro complessivo di mobbing in danno del dipendente.

Con il diciannovesimo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione della sentenza impugnata sulla valutazione di ininfluenza delle pressioni per indurre il P. alle dimissioni ai fini dell'accertamento di una condotta persecutoria.

Tali censure sono inammissibili, atteso che sono dirette contro una puntuale valutazione del giudice di appello, che ha esaminato i rilievi mossi dal ricorrente non riscontrando nè un demansionamento per non essere stato nominato il P. direttore generale nè profili di una condotta persecutoria da parte del datore di lavoro in relazione alle sollecitazioni rivolte allo stesso P. alle dimissioni.

17. In conclusione il ricorso merita di essere accolto con riferimento ai motivi dal primo al quarto ed entro i limiti indicati di cui in precedenza si è detto, con rigetto dei restanti motivi.

Conseguentemente la sentenza impugnata va cassata con riferimento ai motivi accolti, con rinvio alla Corte di Appello di Bari in diversa composizione. Il giudice di rinvio procederà ad una lettura del verbale del verbale del Consiglio di Amministrazione della Fondazione in data 14 gennaio 2006 con particolare riguardo alle espressioni usate in esso ("non dar seguito alle contestazioni disciplinari"), attraverso un ulteriore e più approfondito suo esame sia nei termini letterali che logici, nel quadro della complessa vicenda e dei rapporti tra le parti.

Lo stesso giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Bari in diversa