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martedì 2 ottobre 2012

In caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro non sussiste per il lavoratore cessato dal servizio l'onere di impugnazione nel termine (pre-riforma)

Cass., sent. n. 8893 del 04.06.2003

OMISSIS

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 26 giugno 1996, M. F. esponeva di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze della S.r.l. M. dall'8 maggio 1995 al 13 ottobre 1995, con sospensione dal 31 luglio al 1° settembre, svolgendo mansioni di venditore e propagandista di prodotti Stream e di avere accertato la sottoscrizione di lettere d'incarico ancorché il rapporto si fosse atteggiato con prestazioni assoggettate al potere gerarchico, direttivo, organizzativo e disciplinare della parte datoriale. Chiedeva, pertanto, riconoscersi l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la predetta società e, per l'effetto, condannarla a corrispondergli la somma di L. 2.776. 385, dichiararsi la nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro succedutisi tra le parti in causa ed ordinarsi alla società il ripristino del rapporto con condanna alla corresponsione di tutte le retribuzioni dovute.

La società si costituiva e contestava la fondatezza della domanda. All'esito dell'istruttoria, il Pretore dichiarava essere intercorso tra le parti un rapporto di lavoro subordinato, riconosceva l'inquadramento e le differenze retributive richieste dal F. e ne dichiarava il diritto a riprendere immediatamente il posto di lavoro, ordinando alla convenuta di ripristinare il rapporto e condannandola al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data di costituzione in mora fino a quella dell'effettivo ripristino, nonché al pagamento delle spese di lite.

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 23 giugno 2000, respingeva l'appello della S.r.l. M.. Quanto alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, i giudici di secondo grado rilevavano la genericità dei rilievi della società appellante avverso la motivazione della sentenza di primo grado ed osservavano che, sulla base delle dichiarazioni di tutti i testi e della documentazione allegata (fogli presenza, la cui esistenza e veridicità era stata confermata anche dai testi le cui dichiarazioni, secondo la società, erano state ritenute meno attendibili dal Pretore), emergevano in modo convincente gli elementi tipici della subordinazione, in contrasto con il "nomen iuris" adoperato dalle parti, e cioè l'inserimento dell'appellato nell'organizzazione del datore di lavoro, l'osservanza di un orario fisso, la corresponsione di un compenso fisso (con assenza quindi del rischio d'impresa), l'utilizzazione degli strumenti della società, la subordinazione al Parente, al quale il F. chiedeva ad esempio i permessi. Inoltre, rilevava la Corte d'appello che il giudice di primo grado aveva correttamente e motivatamente applicato al rapporto la legge n. 230 del 1962, dichiarando la nullità dei contratti a termine intercorsi tra le parti, in assenza di una delle ipotesi consentite e in presenza di una proroga del termine senza motivazione. Ne conseguiva la conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato sin dall'origine e la prosecuzione del rapporto in assenza di un valido atto interruttivo, con la persistenza, quindi, dopo la scadenza del termine illegittimo, di tutte le contrapposte obbligazioni, compresa quella datoriale di pagamento delle retribuzioni. Pertanto, gli importi, posti a carico della società nella sentenza di primo grado, dovevano considerarsi attribuiti al lavoratore a titolo retributivo e non risarcitorio, con conseguente esclusione di riduzione del dovuto per un eventuale "aliunde perceptum", rivelandosi, quindi, irrilevante la prova richiesta sul punto dalla società.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la M. S.r.l. con otto motivi; l'intimato non si è costituito.

Motivi della decisione

Con i primi due motivi, che data la stretta connessione tra loro esistente, vanno trattati congiuntamente. La ricorrente denunzia: violazione e falsa applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di qualificazione della natura giuridica del rapporto, non avendo la Corte d'appello tenuto conto della volontà inequivocabilmente manifestata dalle parti di dare al rapporto configurazione di prestazione professionale autonoma, né considerato che non era emersa la sottoposizione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del destinatario della prestazione; nonché violazione e falsa applicazione degli art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. in relazione all'illogica e viziata valutazione degli elementi probatori qualificanti la natura del rapporto, dolendosi dell'apprezzamento di alcune risultanze su cui il giudice di secondo grado avrebbe fondato la tesi della subordinazione.

Le censure si rivelano prive di pregio, sia nella parte in cui denunziano la violazione e falsa applicazione, non di norme di diritto, ma di principi giurisprudenziali, sia nella parte in cui rispetto alla congrua e corretta motivazione della sentenza impugnata, sopra riportata circa gli indici rivelatori della subordinazione e la loro idoneità a contrastare il "nomen iuris" dato al rapporto dalle parti, si limitano a denunziare, non già il mancato o deficiente esame di punti decisivi nel ragionamento del giudice, ma un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, richiedendo, sostanzialmente, un riesame ed una rivalutazione del merito della causa (tra le molte, si vedano Cass. 22 dicembre 1997 n. 12960; Cass. 21 ottobre 1994 n. 8653; Cass. 22 ottobre 1993 n. 10503).

Del resto, nelle controversie aventi ad oggetto l'accertamento di un rapporto di lavoro subordinato è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad operare una determinata qualificazione del rapporto controverso (Cass. 21 maggio 2002 n. 7469; Cass. 12 dicembre 2001 n. 15657; Cass. 18 aprile 2001 n. 5667; Cass. 17 marzo 2001 n. 3887; 23 agosto 2000 n. 11045).

Con il terzo, il quarto ed il quinto motivo, anch'essi da trattare congiuntamente, in quanto intimamente connessi, la ricorrente lamenta:

(a) contraddittorietà e vizio logico della motivazione in ordine alla dichiarazione di nullità del termine dei contratti di lavoro autonomo intercorsi tra le parti;

(b) inammissibilità dell'azione di nullità con riguardo al contenuto testuale dei contratti intercorsi tra le parti;

(c) omessa impugnativa del licenziamento come corollario all'accertamento della natura subordinata del rapporto.

Anche tali censure - che rappresentano la pedissequa riproposizione dei corrispondenti motivi di appello, respinti con congrua e corretta motivazione nella sentenza impugnata - non meritano accoglimento.

Una volta accertata la natura subordinata del rapporto, congruamente ed adeguatamente motivando circa gli elementi che hanno indotto a ritenere non determinante il "nomen iuris" attribuito dalle parti al contratto (in argomento, si veda, da ultimo, Cass. 27 ottobre 2002 n. 12581). I giudici di merito hanno correttamente applicato al rapporto la disciplina di cui alla legge n. 230 del 1962: non ricorrendo e non essendo stata dedotta alcuna ipotesi di ammissibilità di contratti a tempo determinato ed essendosi rivelata immotivata la proroga del termine, hanno dichiarato la nullità dei contratti a termine intercorsi tra le parti, con la conseguente conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato e la prosecuzione di esso in assenza di un valido atto interruttivo.

Inoltre, diversamente da quanto sostiene la ricorrente, in caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro non sussiste per il lavoratore cessato dal servizio l'onere di impugnazione nel termine (di sessanta giorni) previsto a pena di decadenza dall'art. 6 legge 15 luglio 1966, n. 604 (che presuppone un licenziamento), atteso che il rapporto cessa per l'apparente operatività del termine stesso in ragione dell'esecuzione che le parti danno alla clausola nulla. Si applica quindi la disciplina della nullità, sicché in qualsiasi tempo il lavoratore può far valere l'illegittimità del termine e chiedere conseguentemente l'accertamento della perdurante sussistenza del rapporto e la condanna del datore di lavoro a riattivarlo riammettendolo al lavoro (Cass. 13 marzo 1998 n. 2755), salvo l'acquiescenza da parte del lavoratore, ovvero un successivo esplicito atto di recesso del datore di lavoro, ipotesi queste ultime non ricorrenti, né dedotte, nella fattispecie.

Con il sesto, il settimo e l'ottavo motivo, la ricorrente denunzia, rispettivamente, omessa valutazione degli effetti riduttivi del c.d. "aliunde perceptum aut percipiendum", sulla somma liquidata a titolo di trattamento retributivo "medio tempore" maturato (i cui presupposti di fatto la parte datoriale assume di aver dedotto anche in primo grado); violazione e falsa applicazione degli art. 116 c.p.c., art. 420 c.p.c. e art. 427 c.p.c. per omessa ammissione della prova dedotta in grado di appello proprio sull'"aliunde perceptum"; nonché violazione e falsa applicazione degli art. 1218 c.c., art. 1226 c.c. e art. 1227 c.c., anche in relazione alla riduzione del trattamento retributivo per effetto della mancanza della prestazione nel periodo successivo al recesso e per non aver considerato che il lavoratore avrebbe, comunque, avuto diritto solo al risarcimento del danno da determinarsi secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni.

Tali censure sono fondate, nei limiti di seguito specificati.

Invero, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, a favore del lavoratore ed a carico del datore di lavoro, nell'ipotesi in esame, è configurabile esclusivamente un'obbligazione di carattere risarcitorio, e non di carattere retributivo, vertendosi in un caso d'inadempimento contrattuale, con le conseguenze di cui all'art. 1223 c.c. (Cass. 17 ottobre 2001 n. 12697).

Ne deriva che la sentenza impugnata è affetta da omessa pronunzia, in quanto il giudice di merito avrebbe dovuto - anziché ritenerla preclusa in diritto - verificare l'ammissibilità in concreto della richiesta della società, rivolta alla riduzione del risarcimento tenendo conto dell'"aliunde perceptum", e avrebbe dovuto pronunziarsi sull'ammissibilità e sulla rilevanza della prova articolata sul punto in appello.

La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio, anche per la statuizione in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte di appello di L'Aquila.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto il settimo e l'ottavo motivo di ricorso e rigetta gli altri. Cassa, in relazione ai motivi accolti, e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di L'Aquila.

Il 20 dicembre 2002.