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giovedì 13 giugno 2013

Atp nel rito del lavoro

Secondo la sentenza in commento, che verte sul tema delle sanzioni disciplinari al lavoratore, deve ritenersi consentito al datore di lavoro, per acquisire elementi di giudizio circa l'effettiva necessità di incolpare il prestatore, svolgere indagini, anche riservatamente se le esigenze di accertamento della verità lo richiedano. Ciò sempre purchè all'esito di tali indagini il datore proceda alla contestazione prevista dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori ed il prestatore abbia modo di difendersi; diversamente l'accertamento tecnico preventivo, ha come l'acquisizione di prove prima che il trascorrere del tempo le renda impossibili o inutili e richiedendo in ogni caso il contraddittorio con il controinteressato.

Cass., sezione lavoro, sentenza n. 11095/1997
OMISSIS
Svolgimento del processo

Con ricorso del 12 giugno 1992 al Pretore di Milano, F. M., dipendente della s.p.a. J. con la qualifica di "quadro", esponeva di aver ricevuto, il 22 aprile precedente, dall'amministratore delegato una contestazione verbale di illecito disciplinare, consistito nell'avere inviato ad alcuni funzionari della società una lettera anonima scritta dalla moglie e contenente apprezzamenti irridenti circa le loro qualità professionali nonché nell'avere spedito ad una concorrente, la s.p.a. FAI, fatture provenienti dalla medesima e ricevute della J., falsificate nella data, nell'oggetto e nell'importo. La contestazione scritta si era avuto il giorno successivo e ad essa era seguita, dopo un contraddittorio pure per iscritto, la lettera di licenziamento per giusta causa, ricevuta il 16 maggio 1992.

Sostenendo l'infondatezza degli addebiti, il ricorrente chiedeva dichiararsi l'illegittimità del licenziamento, con le conseguenti pronunce ex art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300.

Costituitasi la convenuta ed esperito una perizia grafica disposta d'ufficio, il Pretore rigettava la domanda con decisione del 24 maggio 1994, confermata con sentenza 9 settembre 1995 dal Tribunale, il quale affermava l'irrilevanza della contestazione orale dell'illecito disciplinare, priva di effetti pregiudizievoli per il lavoratore, il quale aveva potuto comunque difendersi nelle forme dell'art. 7 l. cit. dopo la rituale contestazione scritta. Parimenti legittime, in quanto inidonee a danneggiare il lavoratore ma anzi intese a non ledere avventatamente l'onorabilità, erano state le indagini riservate, condotte dalla datrice di lavoro onde identificare l'autore degli scritti suddetti e poi seguite dalla formale incolpazione.

Notava ancora il Tribunale come il principio di immediata contestazione della giusta causa di licenziamento fosse stato rispettato dalla società, considerato che il non breve periodo tempo trascorso fra la commissione dei fatti e l'intimazione del licenziamento era stato necessario per le dette indagini riservate.

Quanto alla fondatezza degli addebiti, la consulenza grafica aveva stabilito con ragionevole certezza che autrice degli scritti anonimi o falsificati era stata la moglie dell'incolpato, il quale tuttavia l'aveva sicuramente istigata, non potendo la medesima, per breve tempo, dipendente della J., essere a conoscenza di fatti e circostanze attinenti all'attività della società ed indicati nelle scritture stesse.

Contro questa sentenza ricorre per cassazione il M.. Resiste con controricorso la s.p.a. J..

Memorie utrinque.

Motivi della decisione

Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 101 e 115 e 696 c.p.c., sostenendo che il Tribunale pose a fondamento della propria decisione, con cui affermò la legittimità del licenziamento disciplinare in questione, prove irritualmente acquisite dalla datrice di lavoro attraverso un'indagine riservata, ossia svolta non nel contraddittorio del prestatore di lavoro e comunque al di fuori del processo. Le ragioni di urgenza dell'indagine - aggiunge il ricorrente - bene avrebbero potuto essere soddisfatte attraverso l'accertamento tecnico preventivo di cui all'art. 696 cit.

Il motivo non è fondato.

In tema di sanzioni disciplinari non sono illegittime le indagini preliminari svolte dal datore di lavoro, anche riservatamente se le esigenze di accertamento della verità lo richiedano, al fini di acquisire elementi di giudizio circa l'effettiva necessità di incolpare il prestatore, purché ad esito di esse il datore proceda alla rituale contestazione dell'addebito ex art. 7 l. n. 300 del 1970 ed il prestatore abbia modo di difendersi (Cass. 18 dicembre 1986 n. 7724).

Diversa è la situazione che giustifica l'accertamento preventivo di cui all'art. 696 c.p.c., che viene richiesto da chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato dei luoghi o la qualità o la condizione di cose, acquisendo prove prima che il trascorrere del tempo le renda impossibili o inutili e sempre in contraddittorio col controinteressato (Cass. 6 febbraio 1985 n. 852).

Nel caso di specie il Tribunale ha esattamente ritenuta legittima un'indagine svolta dalla datrice di lavoro non già in via d'urgenza ma all'insaputa dei singoli sospettati, al fine di scoprire l'autore, o gli autori, di scritti anonimi o materialmente falsi; l'avviso di queste indagini ai sospettati avrebbe potuto renderle inutili e solo ad esito di esse è potuto iniziare il giusto procedimento di cui all'art. 7 cit.

Questo procedimento si è svolto regolarmente e soltanto su di esso si è esplicato il controllo dei giudici di merito, che ne hanno dichiarato la legittimità. Non risponde perciò al vero quanto sostenuto dal ricorrente nella sua memoria e cioé che il convincimento del Tribunale si sia formato su carte estranee al processo.

Col secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione dello stesso art. 7 e dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, affermando che il collegio d'appello avrebbe dovuto dichiarare la nullità del licenziamento intimatogli oralmente prima ancora della contestazione scritta degli addebiti. Ma il motivo è privo di fondamento giacché il Tribunale, con apprezzamento di merito coerentemente motivato e perciò insindacabile in questa sede di legittimità, ha escluso che la preventiva contestazione verbale degli addebiti, intesa anzi a permettere all'incolpato il tempestivo apprezzamento della difesa, equivalesse a licenziamento, poi ritualmente intimato ad esito del procedimento disciplinare.

Del resto, pacifica l'intimazione del licenziamento scritto, il ricorrente avrebbe interesse ad impugnare la precedente contestazione orale soltanto se la controparte pretendesse di far derivare da essa un qualsiasi effetto in proprio favore.

Col terzo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 12 e 115 c.p.c. nonché carenza di motivazione in ordine alla tardiva contestazione degli addebiti, avvenuta più di un anno dopo la asserita commissione dei fatti addebitati.

Neppure questo motivo può essere accolto.

Nel licenziamento per motivi disciplinari il difetto di immediatezza della contestazione, ossia il lungo intervallo di tempo intercorso fra la scoperta dell'illecito e l'inizio della procedura di licenziamento, pone in evidenza il difetto di uno dei requisiti del licenziamento per giusta causa, vale a dire la concreta assenza di un fatto "che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto", secondo la formula dell'art. 2119 c.c.. Pertanto, poiché l'onere di tempestiva contestazione degli addebiti (la cui inosservanza dà luogo ad un effetto simile non a quello della decadenza ma a quello della tedesca Verwirkung: cfr. artt. 654 e 971 c.c. tedesco) si fonda sulla presunzione che la ritardata contestazione riveli la mancanza di interesse a licenziare, il principio di immediatezza va applicato con elasticità dal giudice di merito, che deve tener conto anche della complessità delle indagini necessarie per accertare l'illecito del dipendente (Cass. 9 marzo 1995 n. 2762, 24 giugno 1995 n. 7178).

Non è perciò censurabile la valutazione del collegio di merito, che ha ritenuto congruo il tempo impiegato dalla datrice di lavoro per svolgere accertamenti complessi e delicati, come quelli indispensabili a verificare gli indizi per l'identificazione dell'autore di un anonimo e di falso documentale.

Col quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e dell'art. 115 c.p.c.

in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c. erronea valutazione delle risultanze istruttorie, nonché carente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 n. 5 c.p.c. poiché il Tribunale avrebbe ritenuto la possibilità che i documenti in questione fossero stati spediti dall'azienda da parte di un dipendente (lo stesso ricorrente), nei giorni della spedizione certamente lontano dall'azienda in quanto all'estero.

Il motivo è inammissibile per difetto del presupposto: il Tribunale ha ritenuto la responsabilità del lavoratore dipendente per avere istigato la moglie alla compilazione di scritti anonimi o falsi in danno della datrice di lavoro, ma non ha accertato, perché inutile, l'identità della persona che avesse materialmente provveduto alla spedizione degli scritti.

In conclusione il ricorso va rigettato e per il principio della soccombenza il ricorrente dev'essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in lire 44.500, oltre a lire duemilionicinquecentomila per onorario.

Così deciso in Roma il 16 maggio 1997

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 NOVEMBRE 1997