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lunedì 30 aprile 2018

Legittimo non reintegrare il lavoratore nonostante provvedimento del giudice

Con sentenza n. 86, depositata il 23 aprile 2018, la Corte Costituzionale ritiene legittimo che si rifiuti di eseguire l’ordine provvisorio di riammissione in servizio del dipendente  licenziato. Tuttavia, il datore di lavoro che non esegue l’ordine di reintegrazione provvisoriamente esecutivo, perché  preferisce “scommettere” sulla sua successiva riforma, può essere messo in mora dal dipendente e andare incontro al risarcimento del danno per la mancata reintegrazione, da quando è stato emesso l’ordine  a quando è stato riformato.



SENTENZA N. 86

ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

OMISSIS
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promosso dal Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra Mariangela Segata e la Cassa rurale di Trento, con ordinanza del 26 luglio 2016, iscritta al n. 253 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visti l’atto di costituzione di Mariangela Segata, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 20 marzo 2018 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;

uditi l’avvocato Maria Cristina Osele per Mariangela Segata e l’avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri.


Ritenuto in fatto

1.− Nel corso di un giudizio di opposizione – proposto da una lavoratrice avverso il decreto ingiuntivo con il quale la Cassa rurale sua datrice di lavoro, le aveva richiesto la restituzione dell’indennità corrispostale per il periodo intercorrente tra la data del licenziamento e la data della sentenza che aveva riformato l’ordinanza di annullamento del licenziamento per giusta causa intimatole e di reintegrazione nel posto di lavoro, emessa a conclusione della fase sommaria – l’adito giudice monocratico del Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, premessane la rilevanza e ritenutane la non manifesta infondatezza, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 (Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo), quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), «nella parte in cui […] attribuisce, irragionevolmente, natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima».

Secondo il rimettente, la qualificazione legislativa delle somme in questione in termini risarcitori contrasterebbe, appunto, con l’art. 3, primo comma, Cost.

Per effetto dell’accertamento dell’illegittimità del licenziamento e della conseguente condanna del datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore, vi sarebbe, infatti, un pronto ripristino del rapporto lavorativo (in base alla riaffermata vigenza della lex contractus), con il correlato diritto del lavoratore a percepire il trattamento retributivo spettante, quale obbligazione primaria e finale con valenza corrispettiva, e ciò anche quando il datore di lavoro non adempia (come nella specie) all’obbligo di riammissione in servizio e corrisponda, invece, la relativa indennità, poiché, in tal caso, si realizzerebbe «un’ipotesi di mora accipiendi ([…] con correlativa equiparazione, ai fini della spettanza della retribuzione, della mera utilizzabilità delle energie lavorative del dipendente all’effettiva utilizzazione)».

Diversamente, se «solo l’effettiva riammissione del lavoratore in servizio [fosse] in grado di mutare da risarcitori[a] a retributiv[a] la natura del titolo di corresponsione delle somme (commisurate alle retribuzioni maturate) versate dal datore successivamente alla pronuncia di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro», si determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, sotto il profilo della ripetibilità delle somme corrisposte a tale titolo, tra il datore di lavoro che ottemperi all’ordine di reintegra e il datore di lavoro inadempiente rispetto a tale ordine, che si limiti a versare la retribuzione a titolo risarcitorio, “scommettendo” con ciò sulla sua ripetibilità.

Ove, dunque, fosse riconosciuta la «natura retributiva» dell’indennità (sostitutiva) versata dal datore di lavoro nel periodo successivo alla ordinanza di reintegrazione, ne conseguirebbe – conclude il giudice a quo − che la situazione venutasi a creare dopo tale pronuncia assumerebbe «i tratti della fattispecie (di diritto sostanziale e non già processuale) prevista dall’art. 2126 cod. civ., come già ritenevano le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. S.U. n. 2925/1988) nella vigenza dell’originario art. 18 L. 300/1970».

2.– Si è costituita in questo giudizio la parte opponente nel procedimento principale, la quale ha preliminarmente precisato di non contrastare la richiesta di restituzione delle somme percepite per il periodo dalla data del licenziamento a quella dell’ordine di reintegrazione, e di contestare la debenza delle sole somme relative al successivo periodo intercorrente dall’ordine di reintegrazione alla riforma dello stesso: somme, queste, «da parificarsi ad una retribuzione per prestazione di fatto, svolta in regime di mora creditoris in capo alla datrice di lavoro», che non aveva ritenuto di avvalersi della prestazione lavorativa di essa dipendente.

Ha concluso, quindi, per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata dal giudice a quo.

In subordine, ne ha prospettato una possibile lettura adeguatrice, nel senso che la prevista indennità risarcitoria sia non già alternativa o specificativa, ma “aggiuntiva” rispetto all’effetto reintegratorio, che darebbe titolo alla retribuzione per il periodo successivo alla reintegrazione.

3.– È anche intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità (per difetto di chiarezza del petitum e carenza di motivazione sulla rilevanza) e, in subordine, per la non fondatezza della questione.

Secondo l’interveniente, che ha anche presentato successiva memoria, il denunciato quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, nella sua attuale formulazione, «contempla a carico del datore di lavoro due sole obbligazioni, aventi entrambe natura risarcitoria, alternative tra loro in via di gradata subordinazione, e costituite, la principale, da un facere, la reintegrazione nel posto di lavoro in precedenza occupato dal lavoratore illegittimamente licenziato – risarcimento in forma specifica –, e, la subordinata, da un dare, operante in caso di inadempimento della prima, rappresentato dal pagamento di un’indennità sostitutiva, predeterminata dalla legge nella misura e nella durata – risarcimento per equivalente». Con la conseguenza che, in caso di mancata reintegra, il diritto al risarcimento mediante il pagamento dell’indennità sostitutiva non potrebbe cumularsi, come prospettato dalla difesa della lavoratrice, con il diritto alla retribuzione, che presuppone l’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.


Considerato in diritto

1.– L’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come novellato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), con riguardo alle ipotesi (diverse da quelle, più gravi, di cui al primo comma, riferibili ai datori di lavoro di cui al successivo comma ottavo) in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, al suo comma quarto testualmente dispone che «[i]l giudice […] annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione». Ed aggiunge che «[i]n ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto».

2.– Il giudice monocratico del Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, dubita che tale disposizione sia compatibile con il precetto di cui all’art. 3, primo comma, della Costituzione., nella parte in cui «irragionevolmente», a suo avviso, attribuisce «natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima».

Il rimettente ritiene, infatti, che alla indennità (sostitutiva) corrisposta, al dipendente, dal datore di lavoro inadempiente all’ordine di reintegrazione, vada attribuita natura retributiva, in applicazione della lex contractus riaffermata dal provvedimento reintegratorio e della così ripristinata continuità del rapporto di lavoro, con la correlativa equiparazione alla effettiva utilizzazione delle energie lavorative del dipendente, della mera utilizzabilità di esse, in relazione alla disponibilità del lavoratore a riprendere servizio.

Diversamente, la subordinazione della natura retributiva delle somme versate all’effettiva riammissione in servizio del lavoratore violerebbe il principio di uguaglianza tra la posizione del datore che fornisca la collaborazione necessaria al proficuo utilizzo della prestazione lavorativa e la posizione del datore che si limiti a versare le somme dovute ma non riammetta in servizio il lavoratore, rendendosi così inadempiente al suddetto obbligo di collaborazione, poiché in tal modo verrebbe premiata la condotta di quest’ultimo, il quale così conserverebbe la facoltà di ripetere gli importi corrisposti nell’ipotesi di riforma della pronuncia di annullamento del licenziamento.

3.– La questione così sollevata, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, sarebbe inammissibile, poiché dalla lettura dell’ordinanza e, in particolare, dal suo dispositivo non sarebbe dato comprendere «quale tipo di intervento» chieda il giudice a quo, e perché non parrebbe sussisterne la rilevanza.

3.1.– Tali eccezioni, che vanno preliminarmente esaminate, non colgono nel segno.

È ben chiaro, infatti, quel che il rimettente richiede ai fini della auspicata reductio ad legitimitatem della disposizione censurata: e, cioè, una pronuncia “sostitutiva”, che sostanzialmente ripristini l’originario contenuto precettivo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, per il quale il datore di lavoro, non ottemperante all’ordine di reintegrazione, «è tenuto inoltre a corrispondere al lavoratore», per il periodo dalla data stessa di tale provvedimento e fino alla reintegrazione, non già, come nel testo attuale, «un’indennità risarcitoria», bensì «le retribuzioni dovutegli in virtù del rapporto di lavoro». Retribuzioni che, ai fini della rilevanza della questione, il giudice a quo ritiene, appunto, irripetibili in caso di riforma della pronuncia di annullamento del licenziamento, in applicazione dei principi posti dall’art. 2126 cod. civ., secondo l’orientamento espresso dalle sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 13 aprile 1988, n. 2925.

4.– Nel merito, la questione non è fondata.

4.1.– Antecedentemente alle modifiche apportate dalla legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali) e poi dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, l’art. 18 della legge n. 300 del 1970, nella sua formulazione originaria, oltre a riconoscere al lavoratore «il diritto al risarcimento del danno subito per il licenziamento di cui sia stata accertata la inefficacia o la invalidità», poneva a carico del datore di lavoro, che non avesse ottemperato all’ordine di reintegrazione, l’obbligo ulteriore di «corrispondere al lavoratore le retribuzioni dovutegli» in virtù, e dalla data, della sentenza di annullamento del licenziamento e «fino a quella della reintegrazione».

4.1.1.– In sede di esegesi del riferito testo originario della norma in esame, il risalente precedente della Corte di legittimità richiamato dal giudice a quo (sezioni unite civili, sentenza 13 aprile 1988, n. 2925) – nell’escludere che, in caso di successiva riforma della sentenza dichiarativa della inefficacia o della invalidità del licenziamento, il datore di lavoro potesse ripetere le “retribuzioni” corrisposte al lavoratore non reintegrato nel posto di lavoro – motivava tale irripetibilità facendo applicazione della disposizione di cui all’art. 2126 cod. civ.

Detta norma – per cui (la nullità o) l’annullamento del contratto di lavoro (cui era appunto ricondotta l’ipotesi del licenziamento giudizialmente confermato) «non produce effetto» (e quindi non travolge le retribuzioni corrisposte) «per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione» – era, appunto, considerata riferibile anche alla fattispecie della mancata ottemperanza del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione del lavoratore. E ciò sul presupposto che la (manifestata) disponibilità del dipendente a riprendere servizio fosse equiparabile alla effettiva prestazione dell’attività lavorativa e, quindi, ad intervenuta “esecuzione del rapporto”.

4.1.2.– Tale premessa ermeneutica − oltreché superata dal nuovo testo dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, introdotto dalla legge n. 108 del 1990 – è risultata, comunque, non più in linea con la successiva, e poi consolidatasi, giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, a tenore della quale il rapporto di lavoro affetto da nullità può rientrare nella sfera di applicazione dell’art. 2126 cod. civ. unicamente nel caso, e per il periodo, in cui il rapporto stesso abbia avuto «materiale esecuzione» (ex plurimis, sezione lavoro, sentenze 21 novembre 2016, n. 23645; 30 giugno 2016, n. 13472; 25 gennaio 2016, n. 1256; 3 febbraio 2012, n. 1639; 11 febbraio 2011, n. 3385). Il che è in linea con la nozione di retribuzione ricavabile dalla Costituzione (art. 36) e dal codice civile (artt. 2094, 2099), per cui il diritto a percepirla sussiste solo in ragione (e in proporzione) della eseguita prestazione lavorativa.

4.2.– Se è pur vero, quindi, che l’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato ripristina, sul piano giuridico, la lex contractus, ciò non è vero anche sul piano fattuale, poiché la concreta attuazione di quell’ordine non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro, avendo ad oggetto un facere infungibile.

Per cui, ove il datore di lavoro non ottemperi all’ordine di reintegrazione, tale suo comportamento, riconducibile ad una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato contra ius, da cui propriamente deriva una obbligazione risarcitoria del danno stesso da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato.

4.3.– La disposizione di cui al novellato quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 − con il prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine (immediatamente esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una «indennità risarcitoria» – non è dunque “irragionevole”, come sospetta il rimettente, bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente.

Né è sostenibile che una tale qualificazione risarcitoria della suddetta indennità sia contraddetta dalla prevista sua commisurazione «all’ultima retribuzione globale di fatto», e che ciò appunto inneschi un contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza.

Come correttamente, infatti, osservato dall’Avvocatura generale dello Stato, il ragguaglio dell’indennità sostitutiva all’ultima retribuzione percepita dal lavoratore è, a sua volta, coerente alla qualificazione risarcitoria della fattispecie in esame.

Viene, in tale contesto, in rilievo il “lucro cessante” – il mancato guadagno, cioè, subito dal lavoratore per effetto, prima, del licenziamento illegittimamente intimato e, poi, della mancata riassunzione – e tale voce di danno è coerentemente rapportata a quanto il dipendente avrebbe percepito se, senza il licenziamento, avesse continuato a lavorare e poi se, dopo l’annullamento di questo, fosse stato riassunto in esecuzione dell’ordine di reintegrazione imposto dal giudice.

Ed è appunto (e solo) in tale prospettiva risarcitoria (ed in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno) che si spiega e si giustifica l’ulteriore previsione della detrazione, dall’indennità dovuta dal datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno, di quanto il lavoratore abbia percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché di quanto il medesimo avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.

4.4.– Neppure sussiste l’ulteriore vulnus all’art. 3, primo comma, Cost., che il rimettente sospetta arrecato dalla disposizione censurata per il profilo della disparità di trattamento che, a suo avviso, ingiustificatamente ne deriverebbe (nel quadro della sequenza tra annullamento del licenziamento e successiva sua riforma) tra il datore di lavoro che, medio tempore, adempia all’ordine di reintegrazione del dipendente e il datore di lavoro che, “scommettendo” su quella riforma, viceversa non vi ottemperi, limitandosi a corrispondere al lavoratore l’indennità risarcitoria.

È pur vero, infatti, che il primo non avrà titolo a ripetere le retribuzioni corrisposte al dipendente all’interno del periodo in questione, mentre il secondo potrà ripetere l’indennità risarcitoria versatagli una volta accertata la legittimità del licenziamento ed escluso, quindi, che abbia agito contra ius. Ma si tratta di due situazioni non omogenee e non suscettibili per ciò di entrare in comparazione nell’ottica dell’art. 3 Cost.

Il datore di lavoro ottemperante all’ordine del giudice ottiene, infatti, quale corrispettivo dell’esborso retributivo, una controprestazione lavorativa, che manca invece al datore di lavoro inadempiente.

4.4.1‒Va poi considerato che il datore di lavoro, ove messo in mora, dal lavoratore, ai fini dell’adempimento del suo obbligo di ottemperanza all’ordine del giudice, nel contesto della disciplina lavoristica ispirata al favor praestatoris, può andare, a sua volta, incontro alla richiesta risarcitoria che, secondo i principi generali delle obbligazioni (artt. 1206 e 1207, secondo comma, cod. civ.), nei suoi confronti, formuli il lavoratore medesimo, per il danno conseguente al mancato reinserimento nell’organizzazione del lavoro, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma.

4.5.– Da qui la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente.


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come sostituito dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Trento, sezione lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2018.