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venerdì 21 settembre 2018

Decreto Dignità: cosa cambia in caso di licenziamento

Nel Decreto legge n. 87/2018 (Decreto-Legge Dignità) convertito con modificazioni in Legge n. 96/2018 sono numerose, come noto, le novità in materia di tutela dei lavoratori; si pensi ad esempio alle modifiche alla normativa sui contratti a termine e di somministrazione.

L’attenzione tuttavia è stata indirizzata anche ai licenziamenti individuali, oggetto di alcune, seppur marginali, modifiche all’impianto sanzionatorio e all’indennità risarcitoria.

Decreto dignità e licenziamenti illegittimi: i destinatari
La riforma interviene unicamente sulle indennità da corrispondere al lavoratore soggetto alle cosiddette “tutele crescenti” (Dlgs. n. 23/2015), in caso di licenziamento giudicato illegittimo.

Trattasi di chi è stato assunto, trasformato, o stabilizzato al termine dell’apprendistato, a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015.

Nulla cambia per i lavoratori già in forza al 6 marzo 2015 per i quali continuano ad applicarsi le norme della Riforma Fornero (Legge n. 92/2012).

Leggi anche: Decreto Dignità, testo definitivo coordinato in Gazzetta Ufficiale

Preme evidenziare che il regime delle “tutele crescenti” (con annesse modifiche derivanti dal Decreto Dignità) si applica anche a coloro che, pur essendo stati assunti prima del 7 marzo 2015 in aziende che occupavano fino a 15 dipendenti, in virtù di assunzioni a tempo indeterminato effettuate dopo tale data, raggiungono una maggiore dimensione occupazionale (più di 15 dipendenti).

Licenziamento illegittimo: decorrenza delle novità

Le modifiche del D.L. n. 87/2018 e della legge di conversione si applicano ai soli licenziamenti intimati dal 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del Decreto).

Per tutti gli altri licenziamenti, anche in assenza di una sentenza passata in giudicato, continueranno ad applicarsi le vecchie norme.

Decreto Dignità e licenziamenti nulli o infficaci
Gli effetti del Decreto Dignità non hanno toccato il sistema sanzionatorio previsto per i licenziamenti nulli o inefficaci comminati cioè:

per motivi diretti alla discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, handicap, età, basata sull’orientamento sessuale o le convinzioni personali;
per ragioni legate alla fruizione dei congedi per maternità e paternità;
in forma orale;
per causa di matrimonio.
Oltre a tutti casi di nullità del licenziamento previsti dalla legge. Nelle ipotesi citate, per le quali è prevista la reintegrazione nel posto di lavoro (o l’indennità sostitutiva), nulla è cambiato rispetto all’impianto originario disegnato dal Dlgs. n. 23/2015.

Stessa sorte per i licenziamenti in cui si accerta che il fatto contestato al lavoratore non sussiste (anche in questo caso la conseguenza è la reintegrazione).

Decreto Dignità: riforma del Jobs Act sui licenziamenti illegittimi
Il Decreto si limita a intervenire sull’indennità risarcitoria prevista dal Jobs Act (articolo 3 comma 1 del Dlgs. 23/2015) per i casi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa, giustificato motivo soggettivo o oggettivo.

In queste ipotesi (per aziende con più di 15 dipendenti) nell’impianto originario l’organo giudicante dichiarava estinto il rapporto di lavoro e condannava il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria (non soggetta a contributi previdenziali) pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

Importo minimo del risarcimento da 4 a 6 e massimo da 24 a 36 mensilità

Sul punto, il Decreto Dignità interviene elevando l’importo minimo del risarcimento da 4 a 6 mensilità, mentre il tetto massimo passa da 24 a 36.

Per le piccole imprese (fino a 15 dipendenti) il Dlgs. n. 23/2015 nella sua versione ante riforma, prevedeva l’estinzione del rapporto e il pagamento da parte del datore di un’indennità risarcitoria (non soggetta a contributi) pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, comunque non inferiore a 2 e non superiore a 6 mensilità.

Il Decreto Dignità alza l’ammontare minimo a 3 mensilità, mentre lascia invariato il tetto massimo.

L’offerta di conciliazione nei licenziamenti senza giusta causa
La riforma in parola interviene anche sull’istituto della conciliazione volontaria, figlia del Dlgs. n. 23/2015 e non a caso applicabile nei licenziamenti senza giusta causa dei lavoratori soggetti al regime delle “tutele crescenti”.

La norma prevede l’offerta da parte del datore, entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, di una somma esente da contributi e imposte pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità.

L’importo, da riconoscere a mezzo assegno circolare, ha come fine quello di evitare il giudizio. Infatti, l’accettazione dell’assegno (presso una sede protetta) comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla sua impugnazione.


Il Decreto Dignità (per le imprese con più di 15 dipendenti) eleva l’importo minimo a 3 mensilità e il tetto massimo a 27.

Per le piccole imprese (fino a 15 dipendenti) l’offerta di conciliazione (mezza mensilità per ogni anno di servizio) sconta un minimo di 1 mensilità e un massimo di 6. Con la riforma, al lavoratore spetta un assegno comunque non inferiore a 1,5 mensilità, mentre invariato resta il tetto di 6 mensilità.