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mercoledì 7 aprile 2021

Merchandising presso un centro commerciale e interposizione nella prestazione di lavoro

La Corte di Cassazione analizza il caso del merchandising presso un centro commerciale quale possibile interposizione nella prestazione di lavoro.

Cassazione civile sez. lav., 01/04/2021, (ud. 23/09/2020, dep. 01/04/2021), n. 9106

Fatto rilevato che:

1. la Corte di Appello di Genova, con sentenza pubblicata il 4 marzo 2016, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto le domande proposte dai lavoratori in epigrafe nei confronti della Coop. Liguria Società Cooperativa di Consumo, domande volte ad accertare la sussistenza di rapporti di lavoro subordinato, nonostante detti rapporti fossero "ufficializzati nel tempo da varie società con contratti di collaborazione", e, comunque, l'illecita interposizione di manodopera;

2. la Corte ha rigettato il primo motivo di appello sull'assunto che correttamente il giudice di primo grado aveva ritenuto "non sussistenti nei rapporti di lavoro dedotti dai ricorrenti gli indici sintomatici del rapporto di lavoro subordinato, e ciò sulla base della valutazione complessiva delle allegazioni contenute nei ricorsi integrate dalle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero"; secondo la Corte genovese, "diversamente da quanto dedotto dagli appellanti, il giudice di prime cure, lungi dal rigettare le domande ritenendo pacifico che i ricorrenti svolgessero attività di merchandising, ha puntualmente analizzato le mansioni svolte dagli stessi, dando atto che le stesse fossero corrispondenti a quelle tipicamente svolte dai merchandiser, trattandosi di prestazioni prodromiche, accessorie e conseguenti a tali attività";

3. la Corte ha respinto pure il secondo motivo di gravame concernente l'esclusione dell'illecita interposizione di manodopera, affermando che i ricorrenti, nei rispettivi atti introduttivi, avevano allegato "di aver stipulato con le agenzie di promozione contratti co.co.co., co.co.pro e anche di altro genere non contestando la natura di rapporti di lavoro autonomo dei medesimi"; ha rigettato il motivo di impugnazione escludendo altresì "la sussistenza di rapporti contrattuali tra la convenuta (cooperativa) e le agenzie di promozione", richiamando a sostegno Cass. n. 6896 del 2004;

4. per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso B.B., C.F., V.E., R.M., Ca.Lu. e L.S. con 3 motivi; ha resistito la Coop Liguria Società Cooperativa di Consumo con controricorso, illustrato anche da memoria in vista dell'adunanza camerale del 19 marzo 2020; a tale memoria si è richiamata la società con atto del 4 settembre 2020.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. il primo motivo di ricorso denuncia: "violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. e dei criteri giuridici per la individuazione del rapporto di lavoro subordinato con riferimento alla qualificazione dell'attività di merchandiser, anche in relazione con quanto previsto dalla classificazione del personale contenuta nella contrattazione collettiva per i dipendenti da imprese della distribuzione cooperativa"; si lamenta che sarebbe stato dato "valore esclusivo al dato formale costituito dal nomen iuris", senza fare riferimento a criteri distintivi sussidiari quali la continuità e la durata del rapporto e senza dare rilievo "all'onere dell'acquisto dei materiali necessari al lavoratore nonchè alla instaurazione e alla gestione del rapporto con gli utenti e la clientela";

2. il motivo è infondato;

infatti, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (tra le recenti: Cass. n. 3340 del 2019);

in particolare, secondo questa Corte, la valutazione delle risultanze processuali che inducono il giudice del merito ad includere un rapporto controverso nello schema contrattuale del rapporto di lavoro subordinato o autonomo costituisce accertamento di fatto, per cui è censurabile in Cassazione solo la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto (Cass. n. 13202 del 2019; Cass. n. 5436 del 2019; Cass. n. 332 del 2018; Cass. n. 17533 del 2017; Cass. n. 14434 del 2015; Cass. n. 4346 del 2015; Cass. n. 9808 del 2011; Cass. n. 23455 del 2009; Cass. n. 26896 del 2009); qualora l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa del concreto atteggiarsi del rapporto, può farsi ricorso ad elementi dal carattere sussidiario e funzione indiziaria (per tutte: Cass. SS.UU. n. 379 del 1999, con la risalente giurisprudenza ivi richiamata) che, lungi dal prescindere dall'essenzialità della subordinazione, ne accertano in via indiretta l'esistenza quali evidenze sintomatiche di un vincolo non rintracciabile aliunde; chiaro che la mera applicazione dei singoli indici rivelatori rimane muta o può essere addirittura fuorviante se non si accompagna ad una globale visione di insieme che attribuisca maggiore o minor valore ad alcuni di essi a seconda delle peculiarità della prestazione di cui si discute; vale, cioè, il paradigma logico secondo cui gli indizi, proprio perchè tali, vanno letti congiuntamente affinchè il processo inferenziale conduca a risultati univoci; ancora le Sezioni unite di questa Corte (n. 379/99 cit.) insegnano come "ciò che deve negarsi è soltanto l'autonoma idoneità di ciascuno di questi elementi, considerato singolarmente, a fondare la riconduzione del rapporto in contestazione all'uno o all'altro tipo contrattuale (id est, a costituire il criterio, generale ed astratto, preordinato a siffatto risultato specifico), non anche la possibilità che, in una valutazione globale dei medesimi, funzionale alla suddetta indagine prioritaria e decisiva sulla sussistenza del requisito della subordinazione, essi vengano assunti, come concordanti, gravi e precisi indici rivelatori dell'effettività di tale sussistenza"; l'accertamento in ordine alla ricostruzione dei fatti, principali e secondari, che concretano gli indici sintomatici della subordinazione e del come si siano verificati nella vicenda storica che origina la controversia compete ai giudici di merito, così come a costoro spetta anche la valutazione di detti fatti, al fine di esprimere un giudizio complessivo dei medesimi che sintetizzi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento circa la sussistenza o meno della subordinazione medesima; trattandosi di giudizi di fatto questa Corte può sottoporli a sindacato nei limiti consentiti da una prospettazione del vizio di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente; inoltre il giudice di legittimità può sindacare la sussunzione operata dall'impugnata sentenza, sempre nei limiti di una censura appropriata, negando - per dirla con la decisione delle SS.UU. n. 379/99 già citata - che un singolo elemento sintomatico possa fondare la riconduzione del rapporto in contestazione all'uno o all'altro tipo contrattuale, dovendo invece essere praticata una valutazione globale dei medesimi, quali "concordanti, gravi e precisi indici rivelatori" dell'effettività della sussistenza della subordinazione; tuttavia chi ricorre per cassazione non può - come nella specie ha fatto parte ricorrente - limitarsi ad opporre un diverso convincimento, criticando la sentenza impugnata per aver dato credito a talune circostanze, che si assumono prive di valore significativo, piuttosto che ad altre, ritenute al contrario più rilevanti, con ciò assumendo erroneamente di avere individuato vizi idonei a determinare l'annullamento della sentenza impugnata; come noto, infatti, al giudice di legittimità non è conferito il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, essendo del tutto estranea allo scrutinio di legittimità la funzione di procedere ad una nuova valutazione di merito attraverso l'autonoma disamina delle emergenze probatorie; in particolare, tanto più in giudizi nei quali la decisione è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi, tutti concorrenti a supportare la prova del fatto principale, il ricorrente non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile corrispondenza alla realtà fattuale, poichè è necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l'unica possibile (per tutte, sui limiti del sindacato di legittimità in tema di subordinazione, v. Cass. n. 11015 del 2016; successive conformi: v. Cass. n. 9157 del 2017; Cass. n. 9401 del 2017; Cass. n. 25383 del 2017; da ultimo: Cass. n. 32385 del 2019);

3. il secondo motivo denuncia: "nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., anche con riferimento al principio del giusto processo e, più in generale, del concreto esercizio del diritto di difesa", dolendosi che i giudici del merito non avrebbero dato corso ad istanze istruttorie "formalmente e ritualmente richieste";

4. il motivo è inammissibile;

in tema di valutazione delle prove il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell'apprezzamento di merito,- insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017);

inoltre, per risalente insegnamento di questa Corte, la mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011); infine spetta esclusivamente al giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti - senza che possa neanche essere invocata la lesione dell'art. 6, comma 1, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo al fine di censurare l'ammissibilità di mezzi di prova concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) - con una valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi limiti imposti dalla novellata formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);

disposizione quest'ultima che, per i giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, neanche può essere invocata nella specie rispetto ad un appello promosso dai ricorrenti dopo la data sopra indicata (del richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, ove il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c., in base al quale il vizio di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme; v. Cass. n. 23021 del 2014);

5. il terzo motivo denuncia: "violazione e falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, artt. 1 e 3 e del successivo D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, per essere stata esclusa aprioristicamente (e cioè senza una verifica concreta delle mansioni effettivamente svolte ma sulla base esclusiva di dati formali) la esistenza di una interposizione di manodopera o comunque di un rapporto di lavoro del committente - connessa nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.";

6. la censura - in disparte i profili di inammissibilità già rilevati nei precedenti motivi avuto riguardo sia alla deduzione della violazione di legge che in realtà sottende un diverso apprezzamento dei fatti di causa, sia all'improprio richiamo agli artt. 115 e 116 c.p.c. - è infondata;

infatti la sentenza impugnata si è uniformata al principio di diritto affermato da Cass. n. 6896 del 2004, secondo cui: "Atteso che il merchandising è un contratto avente ad oggetto la esposizione di prodotti negli spazi e sugli appositi banchi di vendita di un grande magazzino o centro commerciale, al fine di rendere i prodotti stessi più appetibili per i consumatori, ad opera di una impresa specializzata nella promozione commerciale (cosiddetta "agenzia"), su incarico di una impresa che fornisce i prodotti al grande magazzino o al centro commerciale, il divieto di interposizione di manodopera di cui alla L. n. 1369 del 1960, art. 1, non può mai dirsi violato quando la prestazione del lavoratore addetto (nel caso di specie, merchandiser) si svolga in regime di lavoro autonomo; nel contratto di merchandising, inoltre, non è configurabile la fattispecie interpositoria vietata quando il centro commerciale presso il quale l'attività viene svolta sia estraneo ai rapporti contrattuali tra l'agenzia e l'impresa fornitrice dei prodotti e si limiti a consentire che l'attività di promozione si svolga all'interno della propria struttura di distribuzione";

in mancanza di alcuna adeguata confutazione dell'esposto principio applicato dalla Corte territoriale la censura non è accoglibile;

7. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese liquidate in Euro 6.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma 1 bis dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2021