Conteggi lavoro

lunedì 10 ottobre 2022

Licenziamento orale ed onere della prova

Cassazione civile sez. lav., 07/09/2022, (ud. 11/07/2022, dep. 07/09/2022), n.26407

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d'Appello di Genova, con la sentenza impugnata, nell'ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di primo grado con la quale il Tribunale di Massa aveva dichiarato l'illegittimità del provvedimento di distacco adottato nei confronti di R.S. dalla società (OMISSIS) nel novembre 2014 e accertato che con la distaccataria (OMISSIS) S.r.l. si era costituito un rapporto di lavoro a tempo indeterminato; il Tribunale aveva, poi, dichiarato "nullo il provvedimento di risoluzione del rapporto intimato dalla (OMISSIS) S.r.l. perché privo della forma scritta", condannando la società a reintegrare la lavoratrice, oltre alle pronunce patrimoniali conseguenziali;


2. La Corte, in sintesi e per quanto qui rileva, ha escluso, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, che il licenziamento orale dovesse essere impugnato e, per quanto riguarda l'eccepita decadenza ai sensi dell'art. 32, comma 4, lett. d), L. n. 183 del 2010, ha confermato "il carattere inequivoco del documento in data 5 marzo 2015, sottoscritto dalla lavoratrice e dalla responsabile dell'Ufficio Vertenze della Camera del Lavoro di Carrara, avente quale esplicito oggetto l'impugnativa del ‘distaccò di cui alla comunicazione del 7 gennaio 2015, documento con il quale si contestava l'illegittimità dello stesso distacco e della sua comunicata cessazione", "lo stesso valendo anche come inequivoca offerta, da parte della lavoratrice, della propria prestazione lavorativa nei confronti della società reclamante, che riteneva essere evidentemente l'effettiva sua datrice di lavoro e in coerenza con la ritenuta illegittimità del distacco.


3. In merito al licenziamento privo della forma necessaria, la Corte ha condiviso l'assunto del Tribunale, atteso che, a fronte di una formale offerta della prestazione lavorativa da parte della R., "la società reclamante non ha pacificamente consentito alla lavoratrice di continuare a lavorare alle sue dipendenze e nemmeno ha risolto il rapporto di lavoro con una comunicazione scritta". Ha poi escluso che il comportamento della R., in fatto, potesse essere considerato "come equivalente a dimissioni da parte della lavoratrice o come risoluzione consensuale del rapporto di lavoro tra la stessa e la società reclamante", rilevando altresì che anche la percezione del TFR e la nuova occupazione lavorativa non costituivano elementi tali da integrare un mutuo consenso volto ad una risoluzione tacita consensuale.


4. La Corte d'appello ha poi confermato la sentenza impugnata circa "la illegittimità del distacco, essendosi sostanzialmente risolta in una illecita somministrazione di manodopera", essendo "pervenuta a tale giudizio (...) ricostruendo correttamente le circostanze di fatto, come emerse dall'istruttoria, attraverso i documenti e le dichiarazioni testimoniali, ed anche dalle stesse prospettazioni delle parti"; con la conseguenza che la Corte non ha ritenuto "necessaria alcuna ulteriore attività istruttoria, in quanto,


la ricostruzione della vicenda storica è stata già esaustivamente raggiunta".


5. Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la (OMISSIS) s.r.l., notificato in data 12 agosto 2019, affidando l'impugnazione a quattro motivi, cui ha resistito l'intimata con controricorso depositato il 18 giugno 2021.


6. In prossimità della pubblica udienza il Procuratore


Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.


La parte ricorrente ha comunicato memoria.


Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente deve essere dichiarata la tardività del controricorso della R. notificato oltre il termine previsto dall'art. 370 c.p.c.


2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione del L. n. 183 del 2010 art. 32, comma 4, lett. d), e dell'art. 1362 c.c., per "erronea attribuzione di efficacia di impugnazione alla comunicazione del 5/3/2015"; si sostiene che detta comunicazione, se correttamente interpretata, "non poteva valere come manifestazione di volontà di chiedere l'accertamento del rapporto in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto".


La censura è inammissibile perché con la stessa si


propone una diversa interpretazione della


manifestazione di volontà contenuta nella comunicazione del 5 marzo 2015, invocando un sindacato che esorbita dai poteri di questo giudice di legittimità.


E' noto, infatti, che anche l'accertamento della volontà si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), riservato all'esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), salva la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica o di un vizio di motivazione. Inoltre, sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione - ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l'anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito - non potendo le censure risolversi, in contrasto con l'interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000).


Nella specie, al cospetto dell'approdo esegetico cui pervenuta la Corte distrettuale parte ricorrente, nella sostanza, si limita a rivendicare un'alternativa interpretazione plausibile più favorevole; ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di un testo sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito - alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito - dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (Cass. n. 10131 del 2006); infatti il ricorso per cassazione


riconducibile, in linea generale, al modello dell'argomentazione di carattere confutativo - laddove censuri l'interpretazione del negozio accolta dalla sentenza impugnata non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l'invalidità dell'interpretazione adottata attraverso l'allegazione (con relativa dimostrazione) dell'inesistenza o dell'assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue (per tutte: Cass. n. 18375 del 2006).


3. Il secondo mezzo denuncia la violazione dell'art. 6 L. n. 604 del 1966, criticando la Corte genovese per avere ritenuto non necessaria l'impugnazione del licenziamento orale.


Il motivo è infondato.


Per pacifica giurisprudenza di questa Corte, dalla quale il Collegio non ravvisa ragione per discostarsi, l'azione per far valere l'inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata all'impugnazione stragiudiziale, anche a seguito delle modifiche apportate dall'art. 32 della L. n. 183 del 2010 all'art. 6 della L. n. 604 del 1966, mancando l'atto scritto da cui la norma fa decorrere il termine di decadenza (Cass. n. 523 del 2019; Cass. n. 25561 del 2018; Cass. n. 22825 del 2015; in precedenza v. Cass. n. 3022 del 2003).


4. Il terzo motivo denuncia la violazione dell'art. 2697 c.c., assumendo che "non è stata raccolta alcuna prova in ordine ad una espulsione posta in essere da (OMISSIS) verso R.S.", non essendo sufficiente "la circostanza - invero neutra - secondo cui alla Sig. R. non è stato consentito di continuare a lavorare per (OMISSIS)".


Anche tale doglianza non può trovare accoglimento.


Va premesso che la violazione dell'art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l'apprezzamento operato dai giudici del merito circa l'esistenza della prova del licenziamento privo di forma adeguata, opponendo una diversa valutazione.


Ribadito, poi, che il lavoratore che impugni il


licenziamento allegandone l'intimazione senza


l'osservanza della forma scritta ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa (Cass. n. 3822 del 2019; Cass. n. 13195 del 2019), nella specie la Corte territoriale non ha affatto ritenuto la prova del recesso sulla base della mera cessazione dell'attività lavorativa, quanto piuttosto desumendola dal comportamento concludente della società che, a fronte della richiesta della R. di continuare a lavorare alle sue dipendenze, non lo ha consentito, escludendo altresì, sulla base di apprezzamenti in fatto, che dal comportamento della R. potesse desumersi la volontà di dimettersi ovvero un mutuo consenso rivolto ad una risoluzione tacita (apprezzamenti, questi, non rivalutabili innanzi a questa Corte: v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017). 5. L'ultimo motivo deduce, ai sensi del n. 4 dell'art. 360 c.p.c., la violazione dell'art. 437 c.p.c. per mancato espletamento delle prove, sia avuto riguardo all'indagine che sarebbe stata necessaria per accertare l'oralità del licenziamento, sia in ordine alla "erronea ritenuta insussistenza di un legittimo interesse al distacco da parte della (OMISSIS)".


La censura non merita condivisione.


Per risalente insegnamento di questa Corte, la mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l'omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011; più di recente Cass. n. 16214 del 2019); inoltre spetta esclusivamente al giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti - senza che possa neanche essere invocata la lesione dell'art. 6, comma 1, della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo al fine di censurare l'ammissibilità di mezzi di prova concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) - con una valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi limiti imposti dalla novellata formulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014); vizio nella specie neanche invocabile in presenza della preclusione posta dall'art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in presenza di una c.d. doppia conforme (v., tra molte, Cass. n. 23021 del 2014).


Inoltre, nella specie parte ricorrente non dimostra adeguatamente né l'esistenza di un nesso eziologico tra l'omesso accoglimento dell'istanza istruttoria ed il rigetto della pretesa azionata, né che la pronuncia, senza quel preteso errore decisivo addebitato al giudice, sarebbe stata diversa (v. Cass. n. 22672 del 2018; Cass. n. 7037 del 2020).

In realtà, i giudici di merito hanno ritenuto concordemente che la ricostruzione della vicenda storica fosse stata raggiunta sulla base del materiale probatorio già acquisito al giudizio, stimando superflua ogni ulteriore indagine, esprimendo così un convincimento che è tipico del giudizio di merito e che non può essere veicolato in uno dei vizi tassativamente elencati nell'art. 360 c.p.c.


6. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto; non occorre provvedere sulle spese in difetto di attività difensiva tempestivamente attuata dall'intimata.


Occorre invece dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1, comma 17, L. n. 228 del 2012.


PQM

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.


Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.


Così deciso in Roma, il 11 luglio 2022.


Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2022