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lunedì 19 dicembre 2011

Cassazione sentenza n. 9458 del 2010: impugnativa licenziamento



SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

MOTIVI DELLA DECISIONE

P.Q.M.

Cassazione Sentenza n. 9458 21.04.2010
OMISSIS)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza in epigrafe indicata del 6 febbraio 2006 la Corte d'Appello di Messina confermava la statuizione di primo grado, con cui era stata rigettata la domanda proposta da C.B. per la declaratoria di illegittimità del licenziamento che gli era stato intimato dalla spa Poste Italiane. La Corte adita, in relazione al primo motivo d'appello concernente la esistenza di un giudicato, rilevava che non vi era alcuna preclusione perchè quello da esaminare era recesso diverso da quello precedente, oggetto del giudicato; in ogni caso, poichè il primo era stato dichiarato nullo per difetto di forma, non esisteva alcuna preclusione a giudicare sul secondo. Nel merito la Corte rilevava che il licenziamento era stato intimato in ragione della sentenza penale di patteggiamento per un fatto che aveva leso il rapporto fiduciario, giacchè era stata addebitata al C. la disponibilità di mobili e di dipinti antichi, che risultavano oggetto di una rapina avvenuta circa un mese prima presso un'abitazione di F.. I beni erano stati riconosciuti dalle parti lese ed il C. aveva fornito solo indicazioni genetiche sulla loro provenienza e non ne aveva in alcun modo giustificato il possesso, neppure allegando la sua buona fede.

Poichè il C. in sede penale non aveva negato la propria responsabilità, nè allegato cause di proscioglimento, i fatti storici posti a base della sanzione penale non potevano non rilevare nel giudizio concernente il licenziamento, considerando anche che le funzioni esercitate implicavano i maneggio di plichi postali e di valori, mentre era irrilevante che il comportamento contestato fosse stato posto in essere al di fuori dell'ambiente di lavoro. Quanto infine alla questione relativa alla tardività del licenziamento, la questione era inammissibile perchè sollevata solo in appello.

Avverso detta sentenza il soccombente ricorre con quattro motivi.

La spa Poste Italiane resiste con controricorso, illustrato da memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE



Con il primo motivo si assume la violazione del principio del ne bis in idem e difetto di motivazione, perchè il precedente licenziamento, intimato il primo settembre 1998 per lesione dell'elemento fiduciario a cagione della pendenza del procedimento penale, era stato annullato con sentenza del Pretore di Messina, confermata dalla locale Corte d'appello, sia per vizi formali, sia perchè la società non aveva dato prova della giustificatezza del recesso, di talchè avrebbe errato la sentenza impugnata ad escludere la preclusione a giudicare sul secondo licenziamento, posto che gli stessi fatti di cui al procedimento penale erano già stati valutati ai fini della giusta causa.

Il motivo non merita accoglimento.

La sentenza impugnata esclude la preclusione da giudicato, osservando che il licenziamento oggetto della sentenza definitiva era stato intimato ai sensi dell'art. 2119 cod. civ. mentre il secondo, attualmente in esame, si fondava sull'art. 34 del ccnl. Questa affermazione è errata poichè non basta la diversa qualificazione giuridica del medesimo fatto ad escludere la preclusione ex art. 2909 cod. civ.. Tuttavia il dispositivo della sentenza è conforme a diritto onde l'errata motivazione può essere corretta ex art. 384 cod. proc. civ..

Benchè l'attuale motivo di ricorso per cassazione sia generico circa la motivazione del precedente giudicato, dalle espressioni del ricorrente si comprende come la sentenza civile passata in giudicato sia stata emessa senza avere conoscenza della sentenza penale di condanna a seguito di patteggiamento. Fu questa sentenza ad indurre la datrice di lavoro al secondo licenziamento, nella ragionevole convinzione della responsabilità del lavoratore per il fatto costituente illecito penale, e quindi disciplinare. Infatti la circostanza che l'imputato, nello stipulare l'accordo sul rito e sul merito della regiudicanda penale, accetti una determinata condanna, chiedendone o consentendone l'applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare il fatto e la propria responsabilità (Corte Cost. 18 dicembre 2009 n. 336). Questa circostanza nuova differenzia la fattispecie considerata nel precedente processo civile e quella oggetto del giudizio attuale, caratterizzato dalla sostanziale coerenza del processo penale con l'esito del procedimento disciplinare, ossia dalla necessità di impedire che un soggetto, la cui credibilità è minata dall'applicazione della pena patteggiata per un'imputazione patrimoniale, possa continuare a prestare un lavoro consistente anche nel maneggio di valori. Non sussiste perciò la preclusione da giudicato prospettata nel motivo di ricorso.

Con il secondo mezzo si lamenta violazione dell'art. 34 del CCNL e difetto di motivazione, perchè la disposizione contrattuale prevede il licenziamento solo per fatti commessi all'interno dell'azienda ed il recesso in tronco in caso di sentenza di condanna passata in giudicato, e quindi non già per quella di patteggiamento.

Il motivo è inammissibile, non essendo riportata la clausola contrattuale invocata, di talchè questa Corte non è in grado di verificare la bontà della censura, essendole precluso l'esame diretto degli atti, se non per motivi processuali.

In ogni caso, quanto alla rilevanza della sentenza di patteggiamento, si è già affermato (Cass. n. 7866 del 26/03/2008) che "Benchè la sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 cod. proc. pen., che disciplina l'applicazione della pena su richiesta dell'imputato, non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell'ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell'usare l'espressione sentenza di condanna, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cd. di patteggiamento ex art. 444 cod. proc. pen., atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l'accusa dell'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena". Si è affermato ancora (Cass. n. 23906 del 19/11/2007) che "La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. (cosiddetto patteggiamento).

- pur non contenendo un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile - contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare".

Con il terzo motivo si denunzia violazione della L. n. 604 del 1966 perchè sarebbe stato onere della società dimostrare l'esistenza della giusta causa, ossia dell'esistenza e della gravità dei fatti, il che sarebbe contraddetto dal fatto che, a seguito della reintegra, era stato impiegato allo sportello con maneggio di denaro.

La censura non può essere accolta.

Infatti i Giudici di merito si sono fondati, quanto alla gravità della condotta, sulla sentenza penale - che attestava la disponibilità nel domicilio di oggetti preziosi rubati, di cui il dipendente non aveva saputo fornire giustificazioni - motivando poi espressamente sui rif lessi negativi sulle funzioni lavorative proprie del ricorrente che era addetto al maneggio di plichi postali e di valori.

Con il quarto motivo si censura la sentenza perchè la questione della tardi vita del recesso sarebbe era già stata sollevata fatta nel ricorso ex art. 700 c.p.c..

Il motivo è inammissibile, in quanto, anche a considerare rilevanti le argomentazioni sollevate in sede cautelare, e non reiterate in sede di merito, in ogni caso di esse non si riporta il tenore nel presente ricorso, così precludendo alla Corte di verificare la bontà della censura.

Il ricorso va quindi rigettato.

Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.



La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 26,00, oltre duemilacinquecento Euro per onorari.