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lunedì 30 gennaio 2012

APPALTO DI MANODOPERA VIETATO ED INTENTO FRAUDOLENTO - CASS., SEZ. LAVORO, SENT. N. 12249 DEL 16.09.2000

Svolgimento del processo

Con sentenza 31 gennaio - 25 novembre 1996 il Tribunale di Roma, in riforma della decisione del locale Pretore, dichiarava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato diretto tra B. L. e Nuova S. s.p.a., anche a prescindere dall'applicabilità della legge n. 1369 del 1960 (la B. era formalmente dipendente da altra società, la I. s.r.l., ma era inserita nell'organizzazione aziendale della Nuova S. e prendeva ordini dai dipendenti di questa Società).

In conseguenza di tale premessa, i giudici di appello dichiaravano inefficace il licenziamento orale disposto dalla Nuova S., affermando il diritto della B. alla reintegrazione con tutte le conseguenze previste dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970.

Affermavano tuttavia l'improcedibilità della domanda relativa alle differenze retributive reclamate dalla B. in considerazione della ammissione della Nuova S. alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.

La B., secondo quanto accertato dal Tribunale, aveva lavorato per circa otto anni presso il centralino telefonico della Nuova S., con mansioni principali di centralinista. Il suo orario di lavoro, come il suo periodo di ferie, coincidevano con quelli osservati, dai dipendenti di questa società, in quanto il suo lavoro era connesso funzionalmente con le esigenze della stessa.

In caso di assenza della B., la società Nuova S. provvedeva alla sua sostituzione con personale addetto alla società (guardia giurata) o altri impiegati (teste P. e B.: pag. 7 della sentenza impugnata).

Una serie di altre attività veniva poi svolta dalla B.. I giudici indicavano tra queste: la firma sulle bolle di consegna in arrivo, il ricevimento dei visitatori, le informazioni, la sostituzione di commessi in caso di loro assenza, la chiamata degli stessi per conto dei superiori, l'attività di addetta al telex ed al telefax (che tuttavia era da considerare sporadica ed occasionale).

Secondo i giudici di appello, il protrarsi della presenza della B. presso la sede della società Nuova S. appariva sintomatica di uno stretto contatto con il personale, i mezzi, i luoghi e le esigenze proprie ed esclusive della stessa società. Le mansioni principali di addetta al centralino svolte dalla B. non richiedevano sicuramente l'impiego di capitali, macchine ed attrezzature da parte dell'apparente datore di lavoro della lavoratrice (la I. s.r.l., che pure aveva stipulato un contratto di appalto con la Nuova S. non solo per il servizio di addetto al centralino ma anche per la manutenzione dell'impianto telefonico.

La società Itelte, sottolineavano i giudici di appello, si era in realtà limitata a mettere le energie lavorative della B. a disposizione della Nuova S., che provvedeva direttamente ad organizzarle.

Non vi erano spazi per una concreta ingerenza o esercizio di autonomia nelle concrete modalità di utilizzo della prestazione lavorativa della B., che rispondeva direttamente alla Nuova S. per tutto quanto riguardava l'organizzazione del proprio lavoro ed i contenuti della propria attività.

In effetti, la I.si limitava a corrispondere lo stipendio alla B. ed alla sua sostituzione nei casi in cui la Nuova S. non era in grado di provvedere direttamente con personale interno.

Tale ultima circostanza, secondo i giudici di appello, non era di per sé sola sufficiente per escludere l'esistenza di un rapporto di lavoro diretto Nuova S. - B. (ciò anche a prescindere dall'applicazione dell'art. 1 della legge n. 1369 del 1960).

Quanto all'altra attività dedotta nel contratto di appalto I. - Nuova S. (a fianco di quella di centralinista affidata alla B.), il Tribunale osservava che si trattava di due prestazioni lavorative, non collegate necessariamente tra di loro.

In altre parole, il servizio di presidio telefonico, affidato alla cura esclusiva della B., non era accessorio o implicato naturalmente alla manutenzione degli impianti.

Il luogo del presidio telefonico, il centralino, le utenze e le linee telefoniche erano tutti in proprietà e nella disponibilità della Nuova S.: quanto alla stampante, destinata originariamente a raggruppare gli scatti telefonici (questa sì di proprietà della I.), era solo da dire che questa - guastatasi immediatamente - non era mai stata riparata, sicché era la stessa B. ad occuparsi materialmente di tale incombente di contabilizzazione degli scatti (teste P. e B.).

Avverso tale decisione propone ricorso la Nuova S. spa con tre distinti motivi.

Resiste la B. con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della legge n. 1369 del 23 ottobre 1960, ex art. 12 delle preleggi al codice civile (art. 360 n. 3 codice di procedura civile).

Secondo la ricorrente i giudici di appello non avrebbero interpretato correttamente le disposizioni di cui alla legge n. 1369 del 1960, poiché queste - come si desume dal criterio principe di ermeneutica di cui al citato art. 12 delle preleggi - hanno ritenuto illecite solo le ipotesi di appalto che si riducono all'esclusivo utilizzo della prestazione, del lavoratore "strettamente connessa con il processo produttivo oggetto specifico dell'impresa appaltante".

Nel caso di specie la I.era stato vero imprenditore, sopportando il rischio di impresa nell'ambito dell'unico contratto di appalto che riguardava non solo l'utilizzo della B. come centralinista, ma anche l'attività di manutenzione degli impianti, per la quale la società aveva utilizzato propri capitali, macchine ed attrezzature.

I giudici di appello avevano da un lato riconosciuto che l'attività di centralinista non richiedeva fornitura di particolari materiali ed attrezzature, e dall'altro, contraddittoriamente, avevano sottolineato come tutte le strutture telefoniche fossero in proprietà (o nella disponibilità) della Nuova S.. I giudici di appello non avevano tenuto conto che almeno all'inizio del rapporto la I. aveva fornito alla Nuova S. una stampante per il raggruppamento degli scatti (macchina che, una volta guastatasi, non era mai stata riparata). Gli stessi giudici non avevano neppure considerato che il rischio economico riguardante il pagamento dei compensi alla B. era a totale carico della I., la quale - tra l'altro - aveva assunto anche il compito di sostituire la B. con altri suoi dipendenti, in caso di assenza. La istruttoria svolta non aveva consentito di accertare l'inserimento della lavoratrice nella organizzazione della Nuova S. né la sua sottoposizione al potere disciplinare ed organizzativo di questa società.

Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 codice di procedura civile).

Riprendendo le argomentazioni già svolte nel primo motivo di ricorso, la Nuova S. ribadisce che i giudici di appello avrebbero trascurato che le principali attività appaltate da essa società alla I.riguardavano la manutenzione degli impianti telefonici, e che solo in via sussidiaria e nell'ambito della attività di manutenzione era stata prevista la prestazione resa dalla B..

La ricorrente censura poi la conclusione cui sono pervenuti i giudici di appello circa l'esistenza di un duplice contratto tra le due società: infatti, secondo la ricorrente, uno solo era il contratto di appalto ed in esso la società I.aveva svolto in piena autonomia organizzativa una vera e propria attività imprenditoriale con rischio di impresa.

Illogica, secondo la ricorrente, sarebbe la affermazione del Tribunale secondo la quale la società I. fungeva da intermediario solo per le prestazioni relative al presidio del centralino telefonico, mentre per l'attività di manutenzione aveva rivestito la posizione di impresa appaltatrice.

Infine, con il terzo motivo, la ricorrente denunzia il vizio di motivazione contraddittoria ed illogica (art.360 n. 5 codice di procedura civile), ravvisando un contrasto tra l'affermazione - contenuta in sentenza - secondo la quale la I.non aveva alcun rischio di impresa per quanto riguardava la posizione della B. - essendo questa inserita funzionalmente nell'organizzazione aziendale della Nuova S. - e quella per la quale la s.r.l. I.provvedeva a corrisponderle lo stipendio (e finanche a sostituirla in caso di sua assenza).

La ricorrente segnala, inoltre, il contrasto tra l'affermazione che le mansioni svolte non richiedevano "apporto di particolari materiali, capitali, strumenti di lavoro da parte dell'Itelte" e quella contenuta nella stessa pagina della sentenza impugnata (pag.6), secondo la quale "il luogo del presidio telefonico, le utenze le linee telefoniche erano tutte in proprietà e/o disponibilità della Nuova S. e mai della eventuale (leggasi: apparente) appaltante".

Nella successiva pag. 8, la ricorrente segnala, poi, l'indicazione che la attività di centralinista della B. "fosse dedotta nel contratto di appalto Stipulato con la Itelte", in contrasto con la dichiarazione secondo la quale nello stesso contratto "sono considerati e dedotti due diversi tipi di prestazioni" e "l'oggetto del contratto di appalto non essere considerato unitariamente".

Ritiene il Collegio che la decisione impugnata sfugga a tutte le censure mossele con il ricorso, anche se deve essere corretta l'affermazione per cui la causa poteva essere decisa anche a prescindere dall'esame dell'applicabilità al caso concreto delle disposizioni di cui alla legge n. 1369 del 1960 ed in particolare di quelle di cui all'art. 1.

Ritiene infatti il Collegio che non possa prescindersi dall'esame dell'applicabilità dell'art. 1 della legge del 1960 al caso di specie.

All'art. 1, primo comma, della legge 1369 del 1960 si prevede il divieto di affidare "in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l'esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall'appaltatore o dall'intermediario, qualunque sia la natura dell'opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono".

Val la pena di sottolineare che il legislatore non ha adottato una precisa formulazione giuridica, ricorrendo invece alla terminologia dei contratti tipici più frequentemente utilizzati per mascherare l'interposizione.

In questo senso, può dirsi che il richiamo contenuto nel primo comma dell'art. 1 alle figure dell'appalto o subappalto è meramente descrittivo ed esemplificativo, poiché subito dopo lo stesso articolo, nello stesso comma, considera illecita qualsiasi altra forma attraverso la quale è possibile realizzare una situazione interpositoria, aggiungendo poi che è del tutto irrilevante la natura dell'opera o del servizio gestito dall'imprenditore appaltante, in relazione alla quale le prestazioni di lavoro sono richieste ed utilizzate.

In pratica, secondo i principi generali propri del diritto del lavoro, è del tutto inutile ricorrere ad artifici o a contratti tipici diversi da quelli indicati specificamente dal primo comma dell'art' 1 per eludere al divieto legale.

Infatti, sia l'appalto di servizi, che sottolinea l'importanza del risultato finale, che il contratto di somministrazione, che comporta per il suo somministrante l'obbligo di eseguire determinate prestazione periodiche e continuative, che qualsiasi altra figura contrattuale, ricadono tutte nel più generale divieto della legge 1369 del 1960, quando manchi una organizzazione aziendale dell'appaltatore e cioé quando quest'ultimo, in pratica, si limiti a porre a disposizione dell'appaltante energie lavorative, senza adeguata struttura organizzativa e senza alcun rischio. Ciò non equivale a dire che l'appaltatore non è - più in generale - un imprenditore ma solo che non lo è con riferimento a quello specifico contratto, perché non sopporta alcun rischio di impresa (e quindi il contratto è fittizio).

Ovviamente, non si può desumere alcuna indicazione circa la fittizietà dell'appalto sulla base della sola circostanza che i lavori appaltati non siano specialistici e rientrino nella normale attività dell'impresa appaltante.

La legge, infatti, all'art. 1, primo comma, non pone alcun divieto, né implicito né esplicito, di appaltare o subappaltare singole fasi del ciclo produttivo aziendale normale, né ha istituito in proposito alcuna presunzione di interposizione fittizia, come invece, prevede espressamente il terzo comma, per il caso di fornitura all'appaltatore da parte del committente di capitali, macchine, attrezzature. In altre parole, ben possono verificarsi ipotesi di appalto vietato, nonostante difettino gli elementi che consentono di far luogo alla presunzione di cui al comma 3 dell'art. 1.

Per accertare l'esistenza di uno pseudo appalto vietato in quanto relativo a mere prestazioni di lavoro (al di fuori della presunzione di cui al comma 3) occorrerà, in pratica, procedere di volta in volta ad una dettagliata analisi di tutti gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti, allo scopo di accertare in concreto se l'impresa appaltatrice operi concretamente in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all'altra impresa committente o meglio, in altre parole, se essa abbia una gestione a proprio rischio in relazione alla specifica opera o servizio affidatole (Cass. 8 giugno 1983 n. 3921)

Il problema si riduce quindi nell'individuare i criteri da seguire per l'accertamento del requisito della gestione a proprio rischio da parte dell'appaltatore.

Il secondo comma dell'art. 1 abroga innanzitutto la disposizione già contenuta nell'art. 2127 codice civile (che poneva il divieto di cottimo collettivo autonomo).

La previsione della legge del 1960 è comunque più ampia di quella codicistica perché prevede, dopo l'ipotesi del dipendente capocottimista che assume altri lavoratori, anche quella dell'interposizione effettuata da un terzo soggetto estraneo all'impresa, precisando inoltre che può trattarsi anche di una società o di una cooperativa.

Il comma 2 pone una presunzione di appalto vietato, in tutti i casi in cui il pagamento di un lavoro in appalto (eseguito da lavoratori assunti e retribuiti da intermediari) sia effettuato in base alla quantità prodotta (cottimo) : in tale ipotesi, secondo la legge, viene a mancare qualsiasi rischio di impresa e l'appaltatore si limita a fornire semplicemente manodopera che formalmente è alle sue dipendenze, ma di fatto viene utilizzata dall'appaltante.

Perché si verifichi tale ipotesi, naturalmente occorre che l'appaltatore non utilizzi capitali, macchine ed attrezzature propri di una certa consistenza e non disponga di una organizzazione produttiva: in questa ipotesi, la realizzazione dei lavori appaltati comporta solo la materiale esecuzione da parte dei prestatori d'opera subordinati, che sono stati assunti e sono retribuiti dall'appaltatore proprio per tali lavori.

Una seconda ipotesi di presunzione legale è prevista dal terzo comma dello stesso articolo 1, che considera appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto anche per esecuzioni di opere o servizi, tutte le volte in cui l'appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante, anche quando per il loro uso venga corrisposto un compenso all'appaltante.

Si tratta di una presunzione che non ammette prova contraria (come più volte ha riconosciuto la giurisprudenza della Suprema Corte, che può oramai ritenersi consolidata sul punto).

In altre parole, si tratta di una valutazione legale tipicamente predeterminata: ogni volta che si accerti la fornitura dei mezzi di organizzazione e di produzione da parte dell'appaltante, scatta la presunzione di appalto illecito, vietato dall'art. 1. L'accertamento compiuto dai giudici di merito non è censurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione (Cass. nn. l191 del 1993, 2740 del 1989, 4654 del 1978, 896 del 1965).

Nel caso in cui anche uno solo dei tre elementi previsti dal terzo comma sia fornito dall'appaltante - anche se dietro compenso versato dall'appaltatore - è necessario effettuare una indagine sulla preponderanza dell'apporto dato dall'appaltatore e quello eventualmente fornito dall'appaltante, concludendosi per l'esistenza di un appalto vietato tutte le volte in cui il primo sia accessorio rispetto al secondo, come ad esempio, nel caso di attrezzature e capitali di modesta entità economica rispetto al valore del contratto (evidentemente, in questa prospettiva ed in considerazione di questa valutazione complessiva, perde qualsiasi rilevanza la tesi dottrinale che richiede la necessaria compresenza di tutti e tre gli elementi ai fini della presunzione di cui al comma terzo dell'art. 1).

É poi appena il caso di precisare che le attrezzature e le macchine possono anche non appartenere al committente, come del resto risulta dallo stesso tenore letterale del comma 3, il quale, adottando la espressione "fornite", non presuppone evidentemente che le attrezzature e le macchine siano di proprietà dell'appaltante.

Oggi, del resto, esistono varie tipologie di contratto che consentono di disporre di macchine di proprietà di altri: naturalmente deve trattarsi di macchine ed attrezzature che vengono utilizzate per il lavoro appaltato.

In conclusione, può dirsi che - al di fuori delle presunzioni esaminate - per accettare l'esistenza di uno pseudo appalto vietato generico, occorre sostituire ad una valutazione legale tipicamente predeterminata un'altra valutazione, diretta a verificare, in relazione a tutta una serie di elementi che caratterizzano il vero contratto di appalto, se quello posto in essere dalle parti sia veramente tale o mascheri invece un intento fraudolento.

Il criterio interpretativo fondamentale è costituito dall'accertamento dell'esistenza del rischio economico di impresa in capo all'appaltatore. Si tratterà di valutare, di volta in volta, se costui sia provvisto di una propria organizzazione con riferimento a quello specifico lavoro o contratto (cadono pertanto le censure svolte sul punto dalla ricorrente in ordine alla sua autonoma organizzazione ad impresa), se egli su sia impegnato a fornire all'appaltante una opera o servizio determinato, affrontando l'alea economica insita in ogni attività produttiva veramente autonoma (nella quale non può ovviamente rientrare - come invece sembra ritenere la ricorrente - l'onere di corrispondere le retribuzioni ai propri dipendenti), se infine i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente da lui diretti ed agiscano realmente alle dipendenze e nel di lui interesse.

Certamente, la norma di cui all'art. 1662 del codice civile non può ritenersi abrogata per effetto delle, leggi 1369 del 1960 o 196 del 1997, e quindi è ben possibile al committente un controllo tecnico esercitato nei confronti dell'appaltatore: una indagine, anche penetrante, non può determinare di per sé l'esistenza di un appalto di manodopera vietato.

Quando tuttavia tutti gli elementi sopra indicati siano esistenti, come nel caso di specie, quando i risultati dell'indagine giudiziaria convergano nel senso che l'impresa appaltatrice appaia in concreto - vale a dire con riferimento al singolo appalto di cui si discute - sprovvista di effettiva autonomia imprenditoriale, i poteri decisionali siano riservati al committente e sia sottratta all'appaltatore ogni autonomia, sicché questo sia un semplice strumento per celare la realtà dei rapporti, allora il fatto che egli abbia anche potuto impiegare nell'esecuzione dei lavori, capitali, attrezzature e mezzi propri, diventa circostanza del tutto marginale ed irrilevante ai fini del riconoscimento della sussistenza della situazione interpositoria, ipotizzata dal primo comma dell'art 1 della legge 1369 del 1960.

Ciò è quanto avvenuto nel caso di specie, al quale i giudici di appello hanno conclusivamente affermato che: "può quindi dirsi che anche alla stregua del contratto di appalto il rapporto della B. appariva già potenzialmente idoneo a dar luogo ad un inserimento e connessione totalizzanti con la società appaltante" ma che: "in definitiva è in atti la prova di un inserimento diretto della B. nella struttura organizzativa (della Nuova S.) pienamente connotato da tutti i caratteri della prestazione di lavoro subordinato".

Con accertamento insindacabile, sulla base delle risultanze testimoniali, i giudici di appello hanno ritenuto che la Itelte, almeno con riferimento alla posizione della B. all'interno della Nuova S., non abbia mai rivestito la qualità di imprenditore, limitandosi a mettere a disposizione le energie lavorative della lavoratrice che di fatto venivano organizzate direttamente dalla Nuova S., a seconda delle mutevoli esigenze della azienda e senza alcuna interferenza dell'(apparente) datrice di lavoro.

L'attività di centralinista, e tutte quelle più svariate mansioni accessorie di volta in volta affidate alla B., non richiedeva sicuramente capitali, macchine ed attrezzature della Itelte, che si limitava a corrispondere lo stipendio alla lavoratrice (evidentemente tale circostanza non può valere, come invece prospettato dalla società ricorrente, ad integrare un rischio di impresa a carico di Itelte).

La messa a disposizione della B., la quale occupava il posto di centralinista all'interno della Nuova S., ha costituito pertanto una semplice fornitura di manodopera vietata dall'art. 1, comma 1, della legge n. 1369 del 1960, con tutte le conseguenze indicate dall'art. 1, quinto comma della stessa legge.

Non può essere censurato in sede di legittimità, in quanto esente da vizi logici ed errori giuridici, l'accertamento - compiuto dal Tribunale - secondo il quale l'attività di manutenzione degli impianti telefonici non era necessariamente connessa a quella di presidio del centralino: che può quindi essere esaminata autonomamente e per lo svolgimento della quale non era richiesto alcun impiego di capitali, strutture e potenzialità proprie della Itelte.

Le censure di vizio di motivazione formulate con il secondo e terzo motivo di ricorso si rivelano del tutto infondate. Il Tribunale non ha affatto ignorato che la società I.svolgesse anche attività di manutenzione degli impianti telefonici, ma ha soltanto evidenziato che ciò non poteva trasformare in lecito l'altro appalto avente ad oggetto la attività di centralinista della B..

Le censure di contradditorietà e insufficienza di motivazione si rivelano pertanto destituite di ogni fondamento. Né appare fondata la censura di illogicità della motivazione, per avere il Tribunale compiuto valutazioni contrastanti tra di loro, nel motivare il proprio convincimento. Nessuna contraddizione o illogicità è possibile rinvenire nell'aver ritenuto che la B. fosse stabilmente inserita nella organizzazione della Nuova S. e nell'accertamento che i due contratti erano del tutto autonomi e che in quello riguardante il presidio del centralino telefonico la società I.si era limitata a porre a disposizione della Nuova S. le prestazioni lavorative della B., senza organizzarle e senza sopportare alcun rischio di impresa.

Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, in favore della sola parte costituita, B. L., liquidate come nel dispositivo.

Nulla invece per quanto riguarda le spese della s.r.l. Itelte, poiché la stessa non ha svolto difese in questa sede.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in lire 47.000 oltre a lire 3.500.000 (tremilionicinquecentomila) per onorari di avvocato in favore della B..

Nulla per le spese nei confronti della I. s.r.l.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2000.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 SETT. 2000.