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lunedì 23 gennaio 2012

LEGGE N. 104 DEL 1992 - PERMESSI RETRIBUITI - CASSAZIONE SENT. N. 8068 DEL 17 AGOSTO 1998

Svolgimento del processo

Il sig. A. L., dipendente dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, presso lo stabilimento di Foggia, con ricorso del 4 febbraio 1993, chiese al pretore di quella città la condanna del datore di lavoro a riconoscergli il diritto di usufruire di tre giorni al mese di permessi retribuiti secondo la previsione normativa contenuta nell'art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

Il ricorrente sostenne che il proprio figlio, D. F. L., sin dalla nascita (avvenuta il 21 febbraio 1973), era affetto da una grave malattia (ritardo psicomotorio con disturbo del linguaggio encefalopatico), a causa della quale era stato riconosciuto - dalla Commissione di I istanza per l'accertamento degli stati di invalidità civile dell'U.S.L. FG/8 - invalido al 100% e necessitante quotidianamente di assistenza, non essendo egli capace di svolgere autonomamente alcuna attività. Aggiunse di avere inutilmente chiesto - nel mese di marzo del 1992 - al datore di lavoro il riconoscimento di tre giorni di permesso mensile ai sensi della richiamata norma di legge.

Nella resistenza dell'Istituto Poligrafico, con sentenza del 13 aprile 1994, il pretore accolse la domanda.

L'Istituto soccombente interpose appello, chiedendo che, in riforma della decisione di primo grado, fosse rigettata la domanda del L..

Ricostituitosi il contraddittorio, con sentenza del 16 marzo 1995, il Tribunale di Foggia, in accoglimento dell'appello ed in totale riforma della decisione impugnata, rigettò la domanda del ricorrente-appellato.

Il Tribunale ritenne che i permessi, previsti dal terzo comma dell'art. 33 della legge n. 104 del 1992, possono essere concessi esclusivamente al fine di assicurare assistenza a soggetti "con handicap in situazione di gravità", a condizione, però, che tale situazione sia accertata, ai sensi dell'art. 4, comma 1, di detta legge, dalle unità sanitarie locali, mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1 legge n. 295 del 1990, appositamente integrate, allo scopo, da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare in servizio presso le U.S.L. medesime. Nella specie, non era stato effettuato, né certificato detto accertamento, sicché la richiesta del L. non poteva essere accolta. Avverso tale sentenza, A. L. ha proposto ricorso per Cassazione, articolato in due motivi.

L'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 360, n. 3, c.p.c., in relazione all'art. 33 della legge n. 104 del 1992, il ricorrente deduce che il primo comma di quest'ultimo articolo dispone che "la lavoratrice madre, o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell'art. 4, comma 1, hanno diritto al prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa dal lavoro".

L'art. 4, comma 1, richiamato dall'art. 33, prevede che la situazione di gravità debba essere accertata dalle unità sanitarie locai mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1 legge 15 ottobre 1990, n. 295, mentre il terzo comma dell'art. 33 legge n. 104 del 1992 - applicabile alla fattispecie in esame -, disponendo che, successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, i genitori (alternativamente) hanno diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa, "a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno", non richiede che la situazione di gravità debba in tal caso essere accertata ai sensi dell'art. 4. Sicché - conclude il ricorrente - ha errato il Tribunale per avere ritenuto che i permessi possono essere concessi "sempre che la condizione di handicap grave sia accertata ai sensi dell'art. 4, comma 1, legge n. 104 del 1992".

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c., nonché omessa ed insufficiente motivazione, il ricorrente sostiene che, indipendentemente dal valore probatorio della documentazione medica prodotta, la situazione di gravità del figlio "è insita nella stessa patologia da cui questi è affetto". Ed aggiunge che il Tribunale non ha tenuto neppure conto della produzione documentale e della prova testimoniale "che, per altro verso, provavano la situazione di gravità in cui versa l'handicappato".

Entrambi i motivi del ricorso, prospettando diversi profili di un'unica censura, possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono, però, infondati.

La legge 5 febbraio 1992, n. 104 ("Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate"), dopo avere proclamato solennemente e sotto un profilo generale che la Repubblica garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società (art. 1, lett. a), con un'enunciazione - ad introduzione dell'intero testo normativo - nella quale trovano sede i diritti inviolabili, del singolo, considerato come individuo ed inserito nelle formazioni sociali che valgono a sviluppare la persona, anche se portatrice di handicap (art. 1 lett. b, c, d), dispone, all'art. 4, comma 1, che "gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua, di cui all'art. 3, sono effettuati dalle unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1 della legge 15 ottobre 1990, n. 295, che sono integrate da un'operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le unità sanitarie locali". A sua volta, l'art. 3, richiamato dall'art. 4, comma 1, indica i soggetti aventi diritto alle prestazioni, previste dalla legge n. 104 del 1992, coloro, cioè, che presentano una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione (comma 1°). Il successivo comma 3 dello stesso art. 3, inoltre, richiede gli accertamenti di cui al cit. art. 4 "qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione", poiché, in tal caso, "la situazione assume connotazione di gravità".

Nell'ambito degli scopi prefissati dalla legge n. 104 del 1992, sono previste - per quel che qui interessa - particolari agevolazioni, individuate dall'art. 33 in favore della lavoratrice madre o, in alternativa, del lavoratore padre (anche adottivi) nei seguenti termini:

a) nel caso di minore con handicap di gravità accertata ai sensi dell'art. 4, comma 1, diritto al prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa dal lavoro, di cui all'art. 7 legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sempre che "il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati" (comma 1);

b) nel caso di superamento del terzo anno di età del bambino (minore) con handicap in situazione di gravità o di persona, sempre con handicap in situazione di gravità, i genitori - alternativamente - nella prima ipotesi, e colui che presta assistenza - (a quella persona, purché parente o affine entro il terzo grado, convivente) - nella seconda ipotesi, hanno diritto alla concessione di tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa, "a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno" (comma 3).

Sul piano sistematico, appare, innanzitutto, evidente che il prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa dal lavoro, concesso dal primo comma dell'art. 33 legge 5 febbraio 1992, n. 104 ai genitori di minore gravemente handicappato e non ricoverato, costituisce ampliamento dell'istituto del puerperio; così come appare palese che il legislatore, con la previsione contenuta nel terzo comma dello stesso art. 33, ha inteso garantire, in adempimento del principio di solidarietà recepito dall'art. 2 della Costituzione, un beneficio ai genitori per il periodo successivo al compimento del terzo anno di età del minore gravemente handicappato non ricoverato, beneficio esteso anche a coloro i quali assistono persone "con handicap in situazione di gravità" (parenti o affini entro il terzo grado, conviventi) non lavoratori. Ma il beneficio è sottoposto all'indefettibile condizione che, in entrambi i casi, l'accertamento della gravità dell'handicap venga effettuato dalle commissioni indicate nell'art. 4 della legge n. 104 del 1992. Non è, quindi, consentita alcuna dimostrazione dell'"handicap in situazione di gravità" mediante documentazione medica di diversa provenienza o accertamento, non effettuato da quelle apposite commissioni, le quali, peraltro, debbono essere necessariamente integrate da un operatore sociale e "un esperto nei casi da esaminare", in servizio presso le unità sanitarie locali. Né, come sostiene il ricorrente, può ritenersi che, non avendo il terzo comma dell'art. 33 richiamato l'art. 4, comma 1, legge n. 104 del 1992, sarebbe possibile accertare aliunde la situazione di gravità dell'handicap.

L'interpretazione, proposta dal ricorrente, non tiene conto che, potendo di ogni disposizione normativa ammettersi "letture" plurime, in funzione del caso da risolvere, tra le quali l'interprete deve scegliere la soluzione più idonea, l'attività di interpretazione non può mai esaurirsi nel mero esame dei dati testuali.

E difatti lo stesso legislatore (art. 12 delle preleggi) - dopo avere prescritto di attribuire alle parole il loro "significato proprio" - impone di tener conto della "intenzione del legislatore".

In secondo luogo, le leggi, nel disciplinare rapporti sociali, si riferiscono in generale a classi di rapporti: è compito dell'interprete - di fronte a rapporti concreti - decidere se considerarli inclusi nella disciplina della singola norma, oppure no, e, a tal fine, deve impiegare particolari tecniche di "estensione" o di "integrazione" delle disposizioni di legge.

In terzo luogo, di fronte a ciascun caso singolo, spesso occorre utilizzare un'ampia combinazione di disposizioni, opportunamente ricomposte per adattarle al caso.

Invero, compito fondamentale del giudice non è quello di arrestarsi al significato letterale-sintattico di una norma, limitando così il suo operato ad un mero riscontro puramente sovrappositivo della fattispecie concreta alla previsione astratta, ma consiste altresì nell'individuare di volta in volta il significato che la disposizione di legge viene ad assumere nel contesto storico (di sua applicazione), tenendo conto dell'evoluzione normativa del sistema e delle eventuali mutate esigenze o delle istanze socio-economiche, cui quella norma debba essere necessariamente adeguata.

In tale operazione, il giudice, nel procedere alla ricognizione del contenuto normativo della disposizione da applicare, deve essere guidato dalla preminente esigenza del rispetto dei principi costituzionali e, quindi, ove un'interpretazione si riveli confliggente con alcuno di quei principi, è tenuto ad adottare le letture ritenute aderenti al parametro costituzionale, altrimenti vulnerato (Corte Cost. sent. n. 31 del 1996; Cass., n. 2230 del 1995).

Tale è la fattispecie in esame, nella quale il Tribunale, nel ribaltare la decisione di primo grado, ha esattamente ritenuto che i permessi di cui all'art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, possono essere concessi "unicamente al fine di assicurare assistenza a soggetti con handicap in situazione di gravità, sempre che tale condizione soggettiva sia accertata ai sensi dell'art. 4, comma 1, stessa legge".

Ed, avendo rilevato che, nel caso concreto, detto accertamento non era stato effettuato, è pervenuto, conseguentemente, alla corretta conclusione di escludere l'idoneità - a quello scopo - dell'atto della Commissione di prima istanza, "attestante l'invalidità di Lolli Danilo ai fini di cui alla legge n. 118 del 1971", legge - è bene precisare - avente tutt'altre finalità.

Il ricorrente, in parte qua della motivazione della sentenza impugnata, oppone il testo dell'art. 33 legge n. 104 del 1992, estrapolandone un comma, dal quale vorrebbe far discendere una conseguenza favorevole alla propria tesi. Ma, in realtà, non intacca l'impianto argomentativo della stessa sentenza, limitandosi a proporre una "lettura" del testo normativo, che, se accolta, produrrebbe un'inammissibile - in quanto confliggente con il principio di parità sancito dall'art. 3 Cost. - privilegio in favore dei genitori con un figlio "con handicap in situazione di gravità" di età superiore ai tre anni, che non sarebbero - in tal modo - sottoposti (a differenza dei genitori con figli "con handicap" grave inferiore a tre anni di età) all'accertamento di cui all'art. 4, comma 1, della legge n. 104 del 1992.

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Sussistono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese di questo giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma il 26 gennaio 1998.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 17 AGOSTO 1998.