Svolgimento del processo
Con ricorso al pretore giudice del lavoro di Biella, E. F. R. lamentava d'essere stato ingiustamente licenziato con lettera del 13 giugno 1997, per motivi disciplinari, dalla Soc. C. per aver prestato, mentre era assente per malattia dal 1° maggio al 6 giugno 1997, altra attività lavorativa, respingendo, in particolare, l'addebito d'essere rimasto assente ingiustificato nei giorni 16, 17 e 18 maggio 1997, essendo stato autorizzato dal capo reparto a trasmettere il lunedì 19 la certificazione medica relativa.
Costituendosi la C. escludeva che il certificato medico fosse stato consegnato e rilevava che il F. R., avendo svolto l'attività di commerciante restauratore di mobili durante la malattia, aveva pregiudicato il rapporto fiduciario, per cui proponeva eccezione riconvenzionale di licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Istruita la causa, il pretore, ritenuto che la ritardata consegna del certificato medico era stata autorizzata dal capo reparto e che l'attività svolta dal ricorrente non aveva pregiudicato la sua guarigione, accoglieva la domanda, condannando la C. alla reintegrazione del F. R. nel posto di lavoro, oltre al pagamento, ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di cinque mensilità a titolo risarcitorio e al versamento dei contributi previdenziali tra la data del licenziamento e quella della ripresa lavorativa, eventualmente per l'importo differenziale nel periodo di occupazione intermedia.
Interposto appello dalla C., il Tribunale ha confermato la sentenza pretorile, riconoscendo che il certificato medico era stato consegnato il giorno utile immediatamente successivo, in seguito ad autorizzazione del capo reparto e diretto superiore, che, al limite, avrebbe dovuto far presente al F. R. di non poterlo autorizzare.
La sentenza ha escluso, inoltre, che l'assenza di soli tre giorni consentisse, "ex contractu", il licenziamento disciplinare, anche perché, seppure tale infrazione fosse stata contestata nella lettera d'addebito, essa non era richiamata in quella di licenziamento, mentre lo svolgimento dell'attività di restauratore-commerciante di mobili, non aveva pregiudicato la guarigione ed era stata svolta al di fuori dell'orario lavorativo della C..
In particolare, ha ritenuto che mentre il F.R. era rimasto ingessato o era convalescente, nessuno l'aveva visto "trasportare un tavolino", negando, pertanto, l'espletamento di una consulenza tecnica sul suo stato di salute e reputando infondata l'eccezione riconvenzionale dell'esistenza di un giustificato motivo soggettivo di recesso, per aver svolto un'attività pregiudizievole alla salute, oltretutto tale sanzione apparendo sproporzionata rispetto al concreto atteggiarsi della vicenda.
Quanto, infine, al risarcimento del danno, il Tribunale, premesso che la misura di cinque mensilità costituiva la copertura minimale della sanzione legale del licenziamento, sosteneva che la condanna al versamento dei contributi previdenziali "per tale periodo (e cioè la differenza tra quelli versati dal successivo datore di lavoro e quelli dovuti in base alla retribuzione percepita dalla C. S.r.l.)" - così in sentenza - costituiva un'obbligazione "in re ipsa", calcolabile dall'I.N.P.S. tenendo anche conto di quanto eventualmente versato dal datore di lavoro che l'aveva assunto "medio tempore".
Contro questa sentenza la C. propone ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi.
Resiste con controricorso il F.R..
Motivi della decisione
Con il primo motivo la Soc. C. denuncia la violazione, ex art. 360, n. 3, c.p.c., in relazione agli artt. 2967 e 2119 c.c., artt. 1 e 3, L. n. 604 del 1966, art. 7, L. n. 300 del 1970 e art. 437, c.p.c., nonché l'omessa e insufficiente motivazione (art. 360, n. 5, c.p.c.), contestando il convincimento del Tribunale, che ha ritenuto giustificata la ritardata consegna del certificato medico da parte di una collega di lavoro del F. R.a (tal F., alla cui testimonianza il ricorso rimanda genericamente) e non ha tenuto conto che il F. R. doveva dimostrare la legittimità del consenso datogli, risultando apodittica l'affermazione secondo cui era lo stesso superiore che doveva informarlo di non poterlo autorizzare.
Richiamato il contenuto del contratto collettivo che prevede quale causa di licenziamento l'assenza ingiustificata "per oltre tre giorni", che comunque costituisce illecito disciplinare, la C. lamenta che la sentenza non abbia tenuto conto del comportamento complessivo del dipendente, né abbia ammesso le prove dedotte in appello "al fine di chiarire ulteriori elementi di causa".
Con il secondo mezzo la C. protesta, lapidariamente, la mancata valutazione della testimonianza di tal P., che aveva dichiarato esser noto che il F. R. "svolgeva altra attività".
Con ulteriore censura per violazione di legge (art. 360, n. 3, c.p.c.), in relazione agli artt. 2967 e 2119 c.c., artt. 1 e 3, L. n. 604 del 1966 e art. 18, L. n. 300 del 1970, e per vizi di motivazione, la C. si duole che la sentenza abbia, da un lato, trascurato di considerare che spettava al F. R. dimostrare che l'attività di restauratore di mobili non aveva pregiudicato la sua guarigione; dall'altro, negato lo svolgimento di una consulenza incentrata sulla compatibilità dell'attività lavorativa con la guarigione; infine, omesso di valutare la rilevanza del suo comportamento sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo del recesso.
Con l'ultimo motivo la società denuncia, oltre alla violazione di legge, in relazione agli artt. 2967 c.c. e art. 18 dello Statuto dei lavoratori, vizi di motivazione della sentenza per la parte, indeterminata e generica, di condanna al versamento dei contributi previdenziali (eventualmente per l'importo residuale, in caso di minore contribuzione in relazione al periodo di altra occupazione successiva al licenziamento), oltretutto non avendo il lavoratore dimostrato il danno ulteriore, in termini di oneri previdenziali, rispetto a quanto versatogli e tenuto conto che quanto liquidatogli a titolo di danno per l'illegittimo recesso non è soggetto a contribuzione.
I primi tre motivi possono essere valutati congiuntamente, coinvolgendo aspetti fra loro intimamente connessi, anche nella prospettazione delle censure che ne sorreggono l'impianto.
Essi sono manifestamente infondati avendo il Tribunale fatto corretta applicazione del principio secondo cui il libero convincimento del giudice nel momento dell'apprezzamento delle prove non è soggetto a censura che si limiti a prospettare la soluzione favorita dalla parte.
Più in particolare, il Tribunale, oltre a sottolineare che l'intimazione del licenziamento era stata motivata solo in funzione dello svolgimento dell'attività di restauratore, perché asseritamente incompatibile con quella per cui il dipendente era in congedo per malattia, ed a negarne, sulla base delle testimonianze acquisite, l'incidenza, essendo stata espletata dal F. R. presso la sua abitazione in modo "quasi amatoriale", come il teste M. (un investigatore privato indotto dal datore di lavoro per indagare sull'assenza del F.) aveva riconosciuto, ha escluso che anche la mancata, tempestiva certificazione medica dell'assenza relativamente al periodo 16-18 giugno, potesse legittimare il recesso, anche sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo, essendo stata autorizzata, secondo la deposizione del teste M., suo superiore, reputando che, comunque, la C. non aveva dato la prova che l'attività, "svolta a livello quasi amatoriale", fosse stata tale da ostacolare il recupero della sua salute, pervenendo, sulla base di questo contesto probatorio, a escludere la rilevanza della suggerita C.T.U., per la sua inutile superfluità.
Quanto a quest'ultimo aspetto, ovvero circa la ripartizione dell'onere della prova in relazione alla contestazione della legittimità della (perdurante) assenza per malattia, è appena il caso di aggiungere che mentre la C. ben avrebbe potuto chiedere, nel corso di essa, gli accertamenti medici del caso, avvalendosi delle appropriate visite di controllo (v. L. 11 novembre 1983, n. 638, di conversione con modificazioni del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, e D.M. 15 luglio 1986), non poteva poi anche pretendere, nel corso del giudizio, che il F. R. dovesse dimostrare la compatibilità di quanto aveva svolto, com'è emerso inconfutabilmente, "in modo quasi amatoriale", con il suo stato di salute, sicché correttamente il Tribunale ha negato l'ingresso alla C.T.U., oltretutto la sua ammissione concernendo l'esercizio di un potere devoluto alla valutazione discrezionale del Giudice.
Quanto all'ultimo motivo, la censura non merita accoglimento perché la condanna (limitata al solo "an" e soggetta ad eventuale verifica giudiziale circa il "quantum") è consequenziale alla disposizione contenuta nel quarto comma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come sostituito dall'art. 1 della L. 11 maggio 1990, n. 108, (v., con riferimento al testo originario: Corte cost. sentenza 14 gennaio 1986, n. 7).
Secondo la prescrizione citata, infatti, il giudice, con la sentenza con cui annulla il licenziamento "condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno.. [non inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto] e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell'effettiva reintegrazione".
La decisione del Tribunale di Biella appare, pertanto, in armonia con la norma citata anche per la parte che ha disposto l'eventuale integrazione residuale della contribuzione a carico della società rispetto a quanto risultasse accreditato "medio tempore" a suo nome per effetto di altra attività soggetta a contribuzione (v. ad es, SS.UU. 24 ottobre 1991, n. 11327; Cass., 3 febbraio 1992, n. 1094; 3 giugno 1994, n. 5401).
Le spese processuali di questo giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la C. S.r.l. al pagamento delle spese processuali, che liquida in L. 16.000, oltre L. 6.000.000 (seimilioni) per onorari di avvocato.
Così deciso in Roma il 24 settembre 2001.