Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Sassari, con la sentenza n. 352/06 dell'11 aprile 2006, pronunciando sull'azione di rivalsa proposta dall'INAIL nei confronti di P.I. Gavino con ricorso depositato il 19 maggio 1997 (v. ricorso), dichiarava la responsabilità di quest'ultimo per l'infortunio mortale occorso al suo dipendente D.P..
2. La Corte d'Appello di Cagliari, chiamata a decidere sull'impugnazione proposta dal P. nei confronti dell'INAIL, in ordine alla suddetta pronuncia di primo grado, con la sentenza n. 811/07, accoglieva in parte l'appello e in parziale riforma della pronuncia in questione:
dichiarava che l'infortunio occorso a D.P. in data 14 aprile 1998 era imputabile a colpa concorrente dello stesso D. e di P.I.G., in misura del 50 per cento ciascuno;
dichiarava, pertanto P.I.G. tenuto al rimborso in favore dell'INAIL, della prestazione assicurativa erogata nei limiti del danno civilistico e lo condannava, quindi, al pagamento della somma di Euro 151.819,55, oltre interessi dalla domanda.
3. Per la cassazione della suddetta decisione, ricorre il P. prospettando sette motivi di impugnazione. Resiste con controricorso l'INAIL. 4. In prossimità dell'udienza l'INAIL ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. La Corte d'Appello, nell'accogliere in parte l'appello del P., ha ritenuto che nè il dipendente, nè il datore di lavoro, potevano andare esenti da colpa nella causazione dell'infortunio sul lavoro che costava la vita al lavoratore medesimo. Il D. nell'utilizzare, in cantiere, la betoniera collegata per il suo funzionamento con l'energia elettrica, rimaneva folgorato nel tentativo di operare un collegamento diretto tra la betoniera e il cavo di alimentazione con la corrente in tensione, mentre regole di prudenza avrebbero imposto di disattivarla. A carico del datore di lavoro, il giudice di secondo grado ravvisava gravi violazioni delle norme di prevenzione degli infortuni, nel pessimo stato della betoniera - che si spegneva continuamente per difetti all'interruttore di protezione che duravano da tempo, privo dell'interruttore differenziale salvavita.
2. Con il primo motivo di impugnazione, assistito dal prescritto quesito di diritto, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 75 c.p.c., commi 1 e 2, in relazione all'art. 83 c.p.c..
Lo stesso, prospetta la nullità della procura alle liti rilasciata dal ricorrente in primo grado per l'incertezza dell'identità fisica del conferente, non essendo leggibile la sottoscrizione e non essendo indicato il nome dello stesso. Il ricorrente richiama, in proposito, Cass., S.U., n. 1167 del 1994. 3. Con il secondo motivo di ricorso, in uno al previsto quesito di diritto, è dedotta la nullità del procedimento e violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4), per violazione dell'art.75 c.p.c., commi 2 e 3, in relazione all'art. 83 c.p.c..
Ad avviso del ricorrente, come già eccepito alla prima udienza del giudizio di secondo grado, la delega di carattere generale, depositata solo in appello, non sarebbe idonea a conferire il potere rappresentativo all'organo che ha agito per l'INAIL, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, e comunque la stessa sarebbe invalida ed inefficace perchè scaduta il 30 giugno 1995, prima del conferimento della procura, intervenuto nell'aprile 1997. 3. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.
Gli stessi, che investono il tema degli effetti dell'illeggibilità della firma di chi conferisca procura al difensore, ai sensi dell'art. 83 c.p.c., comma 3, al fine di agire o resistere in giudizio, in rappresentanza di un ente individuato con l'esatta denominazione, nonchè la titolarità della rappresentanza dell'Istituto in questione, non sono fondati.
Con la sentenza n. 1167 del 1994, richiamata dal ricorrente, le Sezioni Unite di questa Corte, hanno ritenuto l'invalidità della procura alla lite, apposta in calce od a margine del ricorso per cassazione con firma illeggibile, e quindi l'inammissibilità del ricorso stesso, quando il nome del sottoscrittore non risulti dal contesto del mandato o della certificazione di autografìa resa dal difensore, nè dal contesto dell'impugnazione, nè da altri atti già esistenti al tempo del conferimento della procura medesima.
Il riportato principio è stato, successivamente, condiviso e ribadito da ulteriori pronunce delle Sezioni Unite e dal prevalente indirizzo delle Sezioni semplici.
Tuttavia, a seguito di aperto dissenso con detto indirizzo (Cass., n. 5309 del 1999, n. 13761 del 2002), le Sezioni Unite intervenivano nuovamente sulla problematica in questione, con le sentenze n. 4810 del 2005 e n. 4814 del 2005, affermando che sussiste una situazione d'identificabilità del conferente quando l'atto, unitariamente inteso, enunci una sua specifica funzione o carica nell'ambito dell'organizzazione societaria, quale ad esempio quella di unico rappresentante legale, di unico socio accomandatario, di presidente o vice presidente del consiglio di amministrazione, di amministratore delegato o di direttore generale, alla condizione però che il nome del titolare di tale funzione o carica emerga dagli altri atti della causa, ovvero, in assenza, sia desumibile dalle risultanze del registro delle imprese, nel quale devono essere iscritte le società commerciali (citata Cass., S.U., n. 4810 del 2005).
Facendo applicazione di tale principio, si è affermato che è agevole riscontrare quale sia il direttore di una sede dell'INAIL in un determinato periodo (Cass., n. 4020 del 2006).
La Corte d'Appello di Cagliari, ha fatto corretta applicazione dei principi da ultimo richiamati, a cui questa Corte intende dare continuità, rilevando che dal corpo dell'atto era chiaro chi aveva rilasciato la procura alle liti (direttore sede di Sassari), oltre a rilevare che a fronte della eccezione, formulata solo in appello, della mancata produzione della delega al direttore della sede di Sassari, tale produzione era intervenuta.
In proposito, va anche ricordato che, come già affermato con riguardo ad analoga fattispecie, il direttore di sede provinciale dell'INAIL, ente pubblico non economico, indipendentemente dal provvedimento di delega del Presidente con il quale gli è conferita la rappresentanza dell'Istituto nelle controversie concernenti l'assicurazione - comprensive di quelle relative alla rivalsa (art. 1916 c.c.) rappresenta giuridicamente l'amministrazione nei confronti dei terzi nell'ambito delle attribuzioni spettantegli ai sensi del combinato disposto del D.P.R. n. 748 del 1972, art. 2, e della L. n. 72 del 1985, art. 2, (Cass., n. 10355 del 2002; n. 1990 del 1997). Il suddetto art. 2, comma 2, di tale D.P.R., stabilisce che i dirigenti preposti agli uffici centrali e periferici hanno, nell'esercizio delle proprie attribuzioni, la rappresentanza giuridica dell'amministrazione nei confronti dei terzi.
Il giudizio in questione, è stato promosso dall'INAIL a mezzo del dirigente periferico in data antecedente al 24 settembre 1997 (D.P.R. 24 settembre 1997 n. 367), e, quindi, risulta applicabile la normativa sopra richiamata, previgente al D.P.R. da ultimo citato, in forza della quale i dirigenti degli uffici periferici dell'INAIL, salvo che non risulti diversamente, sono legittimati a rappresentare in giudizio l'Istituto nell'ambito delle loro competenze territoriali (cfr. Cass. n. 10839 del 2000, 23 gennaio 1998 n. 659; n. 1743 del 1996; S.U., n. 11050 del 1994).
Peraltro, con ricadute sulla sussistenza requisito di autosufficienza del ricorso, il P. non riporta la suddetta delega, nè l'allega o indica la collocazione della stessa negli atti del giudizio.
4. Con il terzo motivo di impugnazione, proposto in uno al quesito di diritto, è prospettata violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., e agli artt. 2043, 2087 e 2113 c.c., in tema di rapporto causale tra condotta ed evento e di mansioni del lavoratore.
Ad avviso del ricorrente, l'attività che aveva determinato l'infortunio mortale, come ritenuta dalla Corte d'Appello, e cioè il tentativo di operare un collegamento diretto tra la betoniera ed il cavo di alimentazione, non rientrava nelle mansioni del D., manovale generico. La stessa, che costituiva condotta abnorme, arbitraria ed imprevedibile del lavoratore, consisteva nella disattivazione di dispositivi di protezione di talchè anche l'adempimento dell'eventuale obbligo di fornire attrezzi di lavoro funzionanti non poteva evitare tale condotta.
5. Con il quarto motivo di ricorso, assistito dal relativo quesito di diritto, è dedotta violazione di legge, in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., e agli artt. 2043, 2087 e 2113 c.c., in tema di rapporto causale tra condotta ed evento, e di mansioni del lavoratore.
Ad avviso del ricorrente, la condotta del D. manovale generico, volta ad effettuare interventi sugli apparati elettrici e sui dispositivi di protezione di un macchinario elettrico che aveva in uso, senza staccare la corrente da 380 volt in tensione, cui il macchinario era collegato, era idonea ad interrompere il nesso causale tra l'evento mortale occorso al lavoratore e la responsabilità datoriale.
6. Con il quinto motivo di ricorso, è prospettata insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto controverso della fattispecie relativo alla pretesa inosservanza dei precetti di cui all'art. 2087 cc, quale concausa del sinistro, altrimenti evitabile.
Secondo la Corte d'Appello occorreva la predisposizione di un interruttore differenziale, pure in mancanza di una specifica disposizione antinfortunistica in tal senso.
Il ricorrente afferma, quindi, che il giudice di secondo grado, riteneva erroneamente pacifici, in causa, fatti, in realtà, controversi, quali: il presunto stato di degrado del cantiere e di verosimile umidità degli attrezzi, la circostanza, riferita dal teste Pu., secondo la quale il D. si sarebbe lamentato altre volte del malfunzionamento della betoniera, e che tale malfunzionamento perdurava da tempo, il fatto che la presenza di un interruttore differenziale avrebbe evitato l'incidente e che l'uso di tale dispositivo fosse abituale nei cantieri edili.
7. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati.
Occorre premettere che in tema di responsabilità civile, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonchè dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili, ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (Cass., n. 16123 del 2010, n. 10741 del 2009, Cass., S.U., n. 576 del 2008). A tali principi si è attenuta la Corte d'Appello nel valutare la sussistenza del concorso causale della condotta del lavoratore e del datore di lavoro nella determinazione dell'evento dannoso, come messo in evidenza dall'articolata e logica motivazione.
E' giurisprudenza costante di questa Corte che il disposto dell'art. 2087 c.c. - avente una funzione sussidiaria ed integrativa delle misure protettive da adottare a garanzia del lavoratore - abbraccia ogni tipo di misura utile a tutelare il diritto soggettivo dei lavoratori ad operare in un ambiente esente da rischi, così come è stato posto in rilievo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 399 del 1996 (cfr. Cass., n. 4840 del 2006). Con detta pronuncia, il Giudice delle Leggi ha affermato che non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41 Cost.) ad imporre ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, in quanto numerose altre disposizioni, assumono in proposito una valenza decisiva.
Nel richiamare, in proposito, il contenuto precettivo dell'art. 2087 c.c. - disposizione fondata sul generico dovere di prudenza, diligenza, osservanza delle norme tecniche e di esperienze, parallela all'art. 43 c.p. - che stabilisce che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, la Corte costituzionale ricordava l'interpretazione datane dalla Cassazione (Cass., n. 5048 del 1988), che aveva ritenuto che tale disposizione "come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica" e pertanto "vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di adeguamento di essa al caso concreto".
Le norme specifiche antinfortunistiche rappresentano, dunque, lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, sicchè a tal fine, vanno - proprio per la natura di "norma di chiusura" dell'art. 2087 c.c. - adottate tutte quelle misure che la specificità del rischio cui egli sia esposto impongono. La sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art. 41 Cost., comma 2, che espressamente impone limiti all'iniziativa privata per la sicurezza) che impone - a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione - di anteporre al proprio (legittimo) profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua, adottando ogni cautela che lo specifico contesto lavorativo richieda (Cass., n. 17314 del 2004).
Orbene, a seguito di un corretto e congruo accertamento di fatto, non contestabile in questa sede di legittimità, il Giudice d'appello, premesso che era pacifico che il dipendente stesse lavorando nel cantiere e fosse morto fulminato mentre era intento nella sua attività lavorativa con la betoniera, ha affermato che quest'ultima necessitava per il suo funzionamento dell'energia elettrica, per cui non poteva sostenersi che l'infortunato stesse facendo qualcosa che esulava dalle consuete mansioni affidategli.
Quindi, il giudice di secondo grado ha evidenziato, nel limitare al 50 per cento la responsabilità del P., che lo stesso aveva violato le disposizioni infortunistiche, tra le quali si inscrive, come norma di chiusura il citato art. 2087 cc, in quanto dalle deposizioni testimoniali (teste Pu., collega del D.), era emerso che il D. aveva preannunciato che avrebbe operato, ma non quel giorno, un collegamento diretto tra la betoniera e il cavo di alimentazione. Ciò dimostrava che il continuo spegnimento della betoniera alimentata elettricamente, con cui lavorava il dipendente, per difetti all'interruttore di protezione, persisteva da tempo, e il D. se ne era lamentato altre volte.
Detto cattivo funzionamento, asseriva la Corte d'Appello, era compatibile con lo stato in cui il consulente tecnico d'ufficio nominato dal Pubblico Ministero - in sede del giudizio penale instaurato per i fatti di cui alla presente controversia - rinveniva l'interruttore di protezione della betoniera che, privo della membrana di protezione e di coperchio, non era nemmeno fissato all'interno del vano elettrico ma giaceva per terra, esposto alle intemperie e i cui contatti erano perciò ossidati (fenomeno che richiede del tempo per manifestarsi), e ciò era la causa della frequente interruzione della corrente e dunque del continuo spegnimento della betoniera. Tali fatti, erano stati accertati dal consulente tramite esame diretto, ma erano rilevati dal Collegio nelle foto, scattate dai Carabinieri nella immediatezza, presenti nei fascicoli processuali.
La Corte d'Appello, dunque, con congrua e logica motivazione ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi, ritenendo che nella specie, il ricorrente abbia concorso al 50 per cento alla causazione dell'infortunio mortale, in quanto lo stesso non aveva adottato alcuna misura di prevenzione, nè specifica, tenuto conto del sopra richiamato stato dell'interruttore di protezione, nè generica con riguardo all'interruttore differenziale salvavita. Nè la mancata previsione della misura specifica, circa tale ultimo dispositivo, esclude di adottare quella generica, atteso che, come si è detto, la normativa speciale è rafforzativa, in materia infortunistica, di quella generica, nel senso che aggrava e non esime da responsabilità, quando, pur avendo adottata la misura generale, nella ipotizzata previsione non si adotta quella specifica.
8. Con il sesto motivo d'impugnazione, assistito dal prescritto quesito di diritto, è dedotto il vizio di violazione di legge in riferimento al combinato disposto degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nonchè agli artt. 101 e 116 c.p.c., in relazione all'efficacia probatoria attribuita, nella decisione impugnata, alla consulenza di parte disposta dal PM nel corso delle indagini preliminari, e senza contraddittorio delle parti, in un procedimento penale definito con sentenza di patteggiamento.
Il ricorrente, dato il rilievo attribuito alla CTP disposta dal PM, dalla Corte d'Appello, con il suddetto motivo introduce il tema della valenza probatoria delle prove assunte in un diverso giudizio, pendente tra le stesse parti o tra parti diverse, prospettando la lesione del principio del contraddittorio.
8.1. Il motivo non è fondato. Ed infatti, occorre rilevare che la Corte d'Appello poneva alla base della ritenuta violazione delle disposizioni antinfortunistiche, oltre alla cognizione del CT, anche la diretta valutazione dei luoghi di causa attraverso l'esame delle fotografie scattare, nell'immediatezza dei fatti, dai Carabinieri.
Nè è ravvisabile la dedotta violazione del principio del contraddittorio, poichè il giudice di merito può legittimamente tenere conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, anche di natura penale ed anche se celebrato tra altre parti, atteso che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile, le parti di quest'ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione giudiziale su di essa (Cass., n. 28855 del 2008), come avvenuto nella fattispecie in esame.
9. Con il settimo motivo di ricorso è prospettato il vizio di violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), con riferimento al mancato esercizio da parte del giudice di appello, dei poteri istruttori di cui all'art. 437 c.p.c., in relazione all'art. 134 c.p.c., e art. 111 Cost..
La Corte d'Appello, in particolare, avrebbe omesso di pronunciare sulle istanze tendenti a sollecitare l'esercizio dei poteri ex artt. 437 e 134 c.p.c., e art. 111 Cost., (art. 360 Cost., comma 1, n. 3).
La censura, si precisa nella mancata ammissione di prove e CTU e nella deduzione della mancata audizione da parte del giudice di primo grado, in quanto ritenuta superflua, del teste G.C., unico testimone oculare dell'evento mortale.
9.1. Il motivo non è fondato.
Occorre rilevare che il motivo d'impugnazione, da un lato non soddisfa il requisito di autosufficienza del ricorso, in quanto genericamente il ricorrente fa riferimento a "prove richieste", a "CTU dedotta nel ricorso in appello", senza le necessarie specificazioni con riguardo alla fase processuale e al relativo contenuto degli atti processuali in cui sarebbero stati dedotti (nè riporta i capitoli di prova su cui avrebbe dovuto deporre il teste G., e non precisa se interponeva appello in proposito).
Nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 c.p.c., l'esercizio del potere d'ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere - dovere, sicchè il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova, avendo l'obbligo - in ossequio a quanto prescritto dall'art. 134 c.p.c., ed al disposto di cui all'art. 111 Cost., comma 1, sul "giusto processo regolato dalla legge" - di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d'ufficio una prova diretta a sminuirne l'efficacia e la portata (Cass., S.U., n. 11353 del 2004).
10. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro duemila per onorario, Euro 30,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.