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giovedì 19 aprile 2012

Esternalizzazione - Incarichi dirigenziali - Cass. S.U., sent. n. 5999 del 17.04.2012

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, condannava il Comune di Roma al pagamento in favore di C. P. della somma di Euro 43.200,00 a titolo di risarcimento dei danni conseguenti all'illegittimità dei provvedimenti e comportamenti di detto Comune per il mancato conferimento dell'incarico di direzione della Circoscrizione X. La Corte del merito confermava, innanzitutto, la sentenza di primo grado in relazione alla affermata illegittimità dei provvedimenti con i quali il C. non era stato nominato Dirigente del X Municipio e, tanto, in ragione della mancata valutazione comparativa della professionalità dei dirigenti designati rispetto a quella del C. per il quale erano pacifici i titoli e le candidature. Nè, precisava la Corte territoriale, alcuna ordinanza di designazione conteneva l'indicazione dell'applicazione dei criteri selettivi, pur richiesti dalle delibere della Giunta Comunale. Da ciò conseguiva, secondo la Corte territoriale, il diritto del C. al risarcimento dei danni, ivi compreso quello da perdita di chance. Non competeva, tuttavia, precisava la Corte del merito, il danno morale per lesione all'immagine ed alla professionalità. difettando ogni allegazione al riguardo, nè quello pensionistico in ragione del rilievo che lo stesso era stato azionato solo con riferimento alla minore retribuzione percepita dal 1998 al 2002 e non per tutto il rapporto di lavoro e neppure quello concernente la liquidazione di fine rapporto, non essendo riportato il relativo capo di domanda nelle conclusioni del ricorso di primo grado e dovendosi, in ogni caso, computare l'emolumento in questione in base alla retribuzione percepita.

Avverso questa sentenza il C. ricorre in cassazione articolando tre censure, illustrate da memoria.

Resiste con controricorso il Comune intimato che propone impugnazione incidentale assistita da due motivi.

Motivi della decisione

I ricorsi vanno preliminarmente riuniti riguardando l'impugnazione della stessa sentenza.

Con il primo motivo del ricorso principale, deducendosi, violazione e falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., sull'inammissibilità di domanda nuova in appello, si assume che erroneamente la Corte del merito ha ritenuto che, nel ricorso di primo grado, era stato richiesto solo il risarcimento da minor trattamento pensionistico con riferimento al periodo 1998-2002 in ragione dell'anticipato pensionamento e non un danno da ridotto trattamento pensionistico relativo a tutti gli anni di servizio presso il Comune.

Con la seconda censura del ricorso principale, denunciandosi violazione dell'art. 345 c.p.c., si assume che la Corte del merito ha erroneamente dichiarato inammissibile la richiesta del danno da minor TFR maturato sul non corretto presupposto che il relativo capo della domanda non era stato riportato nelle conclusioni del ricorso di primo grado e non tenendo, quindi, nella dovuta considerazione che tale capo era compreso nel petitum sostanziale.

Con il terzo motivo del ricorso principale, deducendosi omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, si critica la sentenza impugnata in punto di affermata mancata allegazione del danno per lesione all'immagine ed alla professionalità denunciandosi che era stato allegato che l'unico motivo per il quale erano state rassegnate le dimissioni era costituito dal fatto che lo stato di pretermissione e di emarginazione, protrattosi ininterrottamente dal 1998 al 2002, avevano reso disagevole e stressante la vita lavorativa all'interno dell'ufficio.

Con la prima censura del ricorso incidentale, prospettandosi violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 109, art. 22, comma 2, del CCNL Enti Locali Dirigenza 1966 e delle Deliberazioni della Giunta Comunale di Roma n. 3052/97 e 28/01, si afferma, in contrasto con quanto asserito nella impugnata sentenza dalla Corte del merito, che non vi è un obbligo della PA a valutazioni anche comparative della professionalità dei dirigenti al fine del conferimento degli incarichi, nè è necessaria una motivazione esplicitante il completo iter logico seguito nella relativa scelta.

Con il secondo critica del ricorso incidentale, allegandosi violazione degli artt. 1218 e 1226 nonchè art. 113 c.p.c., e art. 132 c.p.c., n. 4, si denuncia che la Corte di Appello, nella sentenza di secondo grado, ha riconosciuto il risarcimento del danno da perdita di chance in assenza di specifica domanda ed ha erroneamente quantificato il relativo danno in misura sostanzialmente piena pur riconoscendo che il livello di responsabilità e l'obbligo di risultato connessi all'incarico non sono stati assunti.

E' pregiudiziale l'esame del primo motivo del ricorso incidentale che risulta infondato.

Mette conto, innanzitutto, rilevare che con particolare riferimento, agli atti inerenti al conferimento degli incarichi dirigenziali la giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato (Cfr. per tutte, Cass. 5659/04, 28274/08, 9814/08, 20979/09 e 21088/10) che gli stessi sono esclusi dalla categoria degli atti amministrativi e vanno ascritti a quella degli atti negoziali, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 1, art. 5, comma 2, e art. 63, comma 1, con conseguente sottrazione al regime e alle regole proprie degli atti amministrativi (come dettate in particolare dalla L. 241/1990), dovendosi fare applicazione delle norme del codice civile, in tema di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro. Pertanto le situazioni soggettive del dipendente interessato possono definirsi in termini di "interessi legittimi" di diritto privato e, quindi, pur sempre ascrivibili alla categoria dei diritti di cui all'art. 2907 c.c., (V. Cass.20979/09 cit. 14624/07, 23760/04 e S.U. 10370/98).

Parallelamente vanno richiamate le regole sancite da questa Corte in materia di limiti interni dei poteri attribuiti dalle norme al privato datore di lavoro. Tali limiti si delineano in relazione a previsioni, contrattuali o normative, che sanciscono le prescrizioni dell'esercizio del potere discrezionale, sul piano sostanziale o su quello procedimentale, precetti questi suscettibili di essere integrati e precisati dalle clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.). Del resto le Sezioni Unite di questa Corte hanno ritenuto che, nell'ambito del rapporto di lavoro "privatizzato" alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il Giudice ordinario sottopone a sindacato i poteri esercitati dall'amministrazione nella veste di datrice di lavoro, sotto il profilo dell'osservanza delle regole di correttezza e buona fede, siccome regole applicabili anche all'attività di diritto privato alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost., (V. Cass. S.U. 9332/02,18017/03 e 1252/04. Questa stessa Corte (sent.28274/08 cit.) ha, inoltre, affermato che ai fini di cui trattasi, vengono in rilevo le norme contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 1, in base alle quali per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro. Le richiamate disposizioni, ha sancito questa Corte, obbligano, pertanto, l'amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, "procedimentalizzano" l'esercizio del potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte). Alla luce dei richiamati principi ritiene il Collegio che la Corte territoriale, nella impugnata sentenza, si è sostanzialmente attenuta alle regole iuris innanzi richiamate circa la ritenuta non correttezza delle ordinanze di designazione dei dirigenti in quanto prive di valutazione comparativa dei candidati e senza applicazione dei criteri di scelta pur sanciti dalle deliberazioni n. 3052/97 e 28/01 della G. C..

Passando all'esame del primo motivo del ricorso principale, relativo alla dedotta violazione dell'art. 345 c.p.c., per aver ritenuto la Corte del merito non proposto - con il ricorso di primo grado - il capo della domanda concernente il risarcimento del danno da minor trattamento pensionistico relativo a tutti gli anni di servizio presso il Comune, rileva la Corte che il motivo, per come articolato, non è esaminabile in questa sede di legittimità.

Secondo questa Corte, infatti, l'interpretazione della domanda e l'apprezzamento della sua ampiezza, oltre che del suo contenuto, costituiscono, anche nel giudizio di appello, ai fini della individuazione del devolutum, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell'esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (Cfr. Cass. 19475/2005 e Cass. 2467/2006, nonchè in particolare Cass. 10101/1998 - seguita da Cass. 13945/2002 - la quale ha precisato che il sindacato su tale operazione interpretativa, in quanto non riferibile ad un vizio in procedendo, è consentito alla Corte di cassazione nei limiti istituzionali del giudizio di legittimità).

Nella specie, di contro, il ricorrente principale ancorchè sostanzialmente deduca una errata interpretazione della domanda di primo grado non denuncia un vizio di motivazione o d'illogicità della stessa esaurendosi l'allegazione nella mera prospettazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dalla Corte di Appello.

Analoghe considerazioni valgono per quanto concerne il secondo motivo del ricorso principale afferente il danno da minor TFR maturato, in ordine al quale va comunque osservato che la sentenza sul punto si fonda anche su di una alternativa ed autonoma ratio decidendi rappresentata dal rilievo secondo il quale "In ogni caso l'emolumento va computato in base alla retribuzione percepita e nulla spetta a titolo di maggior danno"- di per sè idonea a sorreggere sul punto la sentenza impugnata che in quanto non censurata rende sul punto intangibile la decisione del giudice di appello.

Invero è ius reception, nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per il quale l'impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l'uno dallo altro, e ciascuno, di per sè solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero l'impugnazione dell'idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. 4349/2001, Cass. 4424/2001 e da ultimo Cass. 24540/2009).

La terza censura del ricorso principale - relativa al vizio di motivazione in punto di affermata mancata allegazione del danno per lesione all'immagine ed alla professionalità - è infondata.

Ciò che andava allegato non era, infatti, la causa del danno, ma la consistenza dello stesso che non viene affatto prospettata.

Residua l'esame del secondo motivo del ricorso incidentale relativo alla dedotta violazione degli artt. 1218 e 1226 nonchè art. 113 c.p.c., e art. 132 c.p.c., n. 4, per aver la Corte del merito riconosciuto il danno da perdita di chance in assenza di specifica domanda, e quantificato lo stesso in misura sostanzialmente piena pur riconoscendo che il livello di responsabilità e l'obbligo di risultato connessi all'incarico non sono stati assunti.

La censura è infondata.

Per quanto concerne la prima critica va osservato che la stessa non è esaminabile in quanto risolvendosi la censura nella deduzione della violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, il relativo vizio deve essere fatto valere, non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3, come nella specie, o del difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, ma attraverso la specifica deduzione del relativo error in procedendo - ovverosia della violazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4. Pertanto la mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito rende inammissibile il motivo (Cass. 1755/2006 e Cass., S.U. 23071/2006).

Relativamente alla seconda critica devesi rilevare che, nel caso di specie, la retribuzione - comprensiva di quella di risultato e di posizione - costituisce mero parametro di quantificazione equitativa del danno e, quindi, non essendo collegata alla effettiva prestazione di lavoro, è irrilevante che il livello di responsabilità e l'obbligo di risultato connessi all'incarico non sono stati assunti.

Sulla base delle esposte considerazioni i ricorsi, in conclusione, vanno rigettati.

Le spese del giudizio di legittimità in ragione della reciproca soccombenza vanno compensate.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi li rigetta e compensa le spese del giudizio di legittimità.