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venerdì 20 aprile 2012

Il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell'attività lavorativa vera e propria - CORTE D'APPELLO DI FIRENZE, SEZ. LAVORO, SENT. DEL 31.01.2012

Svolgimento del processo

Con la sentenza n. 444 del 16/11/2010 Il Tribunale di Grosseto, giudice del lavoro, accoglieva, nel favore delle spese di lite, il ricorso di C.D. e, dichiarata l'illegittimità del suo licenziamento perché intimato prima che fosse superato il comporto, condannava la E. - che aveva errato di un giorno nei relativi conteggi - a riassumerlo nei tre giorni o, in alternativa, a corrispondergli un'indennità pari a 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali sulla somma rivalutata.

Appellava il C., concludendo, sulla base dei motivi meglio di seguito descritti, per la riforma della sentenza con integrale accoglimento delle domande di cui al ricorso introduttivo.

Resisteva al gravame la E. Srl., per il rigetto previa conferma della sentenza appellata.

All'udienza del 12/1/2012, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo del quale era data pubblica lettura.

Motivi della decisione

Premette preliminarmente la Corte come, in assenza di appello incidentale, l'accertamento operato dal primo giudice di illegittimità del recesso datoriale sia cosa giudicata.

Sul punto rileva, invece, il capo dell'appello principale che, lungi dal disattendere l'affermazione del Tribunale - secondo cui emergeva la sola tutela obbligatoria, non essendo stata raggiunta la dimostrazione della sussistenza del presupposto numerico degli addetti, per accedere alla c.d. tutela reale -, sostiene come un licenziamento operato per erronea determinazione del superamento del periodo di comporto sarebbe nullo, alla stessa stregua del licenziamento operato durante la malattia, con la conseguenza dell'automatica reintegra sul posto di lavoro, senza necessità di accertare la sussistenza o meno dei presupposti voluti dall'art. 18 St. Lav.. L'ottenimento della reintegra è, dunque, l'oggetto dell'appello principale

L'assunto è infondato.

La particolarità dell'art. 18 Statuto è proprio nel fatto di aver unificato il trattamento riservato alle tre patologie che possono inficiare l'atto di recesso: annullabilità, inefficacia (ex art. 2 L. n. 604 del 1966) e nullità, prevedendo la c.d. tutela reale, purchè, però, di questa ne sussistano i presupposti, dai quali si può prescindere solo nella ipotesi di licenziamento discriminatorio (art. 3, L. n. 604 del 1966) che qui non ricorre.

Infatti, la Suprema Corte, in merito agli effetti del licenziamento intimato nel corso della malattia ha avuto modo di affermare, convincentemente che: "(...) è innegabile ad ogni modo che, non diversamente da quanto accade in altre ipotesi in cui non sia stato osservato quanto stabilito dall'art. 2110, comma secondo, cod. civ., il mancato decorso del periodo predetto rende il recesso illegittimo, con la conseguente applicazione dell'art. 18 della L. n.300 del 1970 - il quale sancisce la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro" (C. 134/97). Ma, l'effetto della reintegra, stabilito dal ridetto art. 18, deve operare sussistendone tutti i presupposti. Ha chiarito, appunto, il Collegio di legittimità che: "(...) il giudice, annullato il licenziamento del lavoratore, illegittimo perché intimato prima della scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro, deve, non diversamente che negli altri casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia, rispetto ai quali sussistano i presupposti della tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro -provvedimento che vale a ripristinare la situazione anteriore al recesso - e condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno" (C. 15501/09).

In mancanza di detti presupposti, scatta l'applicazione della c.d. tutela debole che, com'è noto, prevede una forma di risarcimento forfetizzata.

Così ha correttamente operato il primo giudice, fissandone l'ammontare nel minimo di 2,5 mensilità (senza contestazione in merito).

Il primo motivo d'appello dev'essere, dunque, disatteso.

Per quanto attiene al secondo motivo di appello esso pare, invece, fondato nella sua prospettazione principale.

E' pacifico e non è mai stato contestato - nemmeno dalla resistenza all'appello - che il C. fosse tenuto tutte le mattine presentarsi alla sede di Follonica indicata dal datore di lavoro, per poi essere trasferito, ad opera e con mezzi di quest'ultimo, nel cantiere di Piombino.

Parte lavoratrice, infatti, ha allegato, fin dall'esordio del fuoricorso e rinnovando in atti l'allegazione, che era suo obbligo presentarsi in Follonica, luogo dal quale il datore di lavoro disponeva i cantieri di prestazione, provvedendo anche ad accompagnarlo.

Controparte non ha mai smentito nè direttamente e nemmeno indirettamente, l'esistenza di questo obbligo, sostenendo soltanto la tesi, fatta propria dal Tribunale, della irremunerabilità del tempo necessario per raggiungere il posto di lavoro ove fornire in concreto la prestazione. Ma le cose, evidentemente non stanno in questi termini, poiché l'obbligo del C. scattava fin da Follonica, in quanto in quel luogo egli metteva le proprie energie lavorative a disposizione del suo datore di lavoro.

Il Tribunale ha rigettato la domanda di pagamento degli straordinari commisurati al periodo di tempo necessario per raggiungere da Follonica il cantiere di lavoro, sulla base di una stringata considerazione, affermando come fosse giurisprudenza costante (: C. 1202/00, 5323/96, 3434/90) che il tempo impiegato per raggiungere la sede di lavoro non "possa considerarsi come impiegato nell'esplicazione dell'attività lavorativa vera e propria".

Ritiene, però, la Corte che questa opzione - in sé esatta - non riguardi il caso di specie ove è incontroverso l'obbligo del lavoratore di presentarsi in Follonica per poi essere trasferito. Che, dunque, egli abbia messo le proprie energie a disposizione del datore di lavoro fin dalla sua presenza in quest'ultima località non pare dubitabile, sicchè ne deriva che è questa utilizzazione temporale da parte del datore di lavoro (che, per sua ragioni, ha inteso curare il trasporto del lavoratore, senza imporgli di presentarsi direttamente sul cantiere di Piombino) che assume rilievo, come messa a disposizione delle proprie energie lavorative.

Sul punto, invero, s'è formata costante ed uniforme giurisprudenza nel senso della retribuibilità di questo tempo/lavoro.

Insegna, infatti la Suprema Corte che: "Il tempo per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell'attività lavorativa vera e propria (e va, quindi, sommato al normale orario di lavoro come straordinario) allorché lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione; in particolare, sussiste il carattere di funzionalità nei casi in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa" (C. 17511/10, conf.: 5496/06, 5775/03, 13804/99 e, per un caso al presente sovrapponibile, trattandosi della medesima prassi aziendale dello stesso settore edile: C. 5707/06).

In applicazione dei prinicipi sopra richiamati, spetta, dunque, al C. il pagamento delle differenze di orario.

Queste sono state calcolate, distinguendo anno per anno sulla base della paga oraria.

Questo calcolo è stato solo genericamente criticato mentre avrebbe dovuto esserlo analiticamente (da ult. C. 4051/11), sicchè anche in punto di quantum deve ritenersi formata la prova sull'importo allegato e non smentito.

In ultimo, va detto che in primo grado il datore di lavoro aveva sollevato eccezione di prescrizione che, però, non è stata riproposta in questo grado, dovendosi dunque ritenere abbandonata (C. 8854/07, conf.: ex multis: 12260/09, da ult. 5735/11).

In conclusione deve accogliersi il secondo motivo di appello condannando al pagamento di Euro. 13.948,50, oltre interessi e rivalutazione e metà delle spese del doppio grado, liquidate dal Tribunale quelle di primo e nell'intero del presente grado in Euro. 2.800,00, di cui Euro. 1.800,00 per onorari ed il resto per diritti, oltre IVA, CAP e spese forfetarie di legge.

P.Q.M.

La Corte accoglie parzialmente l'appello proposto da C.D. avverso la sentenza n. 444 del 16/11/2010 del Tribunale di Grosseto e per l'effetto, in parziale sua riforma, condanna la E. Srl. a pagare al C. la somma di Euro. 13.948,50, oltre interessi e rivalutazione dalle singole scadenze al saldo definitivo.

Determina nella metà le spese di lite di primo grado da rimborsare al C.. Condanna altresì la E. Srl. a rimborsare al medesimo C. metà delle spese del presente grado liquidando l'intero in Euro. 2.800,00, di cui Euro. 1.800,00 per onorari ed il resto per diritti, oltre IVA, CAP e spese forfetarie di legge.