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martedì 29 maggio 2012

Volontà dei contraenti nella distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato - Cass. sent. n. 5520 del 20.06.1997

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Milano, confermando la decisione di primo grado, dichiarava la natura subordinata e non autonoma della prestazione di lavoro resa da G. G., quale responsabile del servizio del personale per la appellante società T.E. s.r.l. in concordato preventivo. Riteneva, in particolare, il Tribunale, che, considerati gli accertamenti istruttori, il rapporto doveva considerarsi subordinato, in primo luogo perché la prestazione lavorativa era eterodiretta, come risultante dalla soggezione del G. alle direttive generali e programmatiche del datore di lavoro, oltre che dall'obbligo di attenersi ad un determinato orario e di comunicare i propri spostamenti dalla sede di lavoro; in secondo luogo perché l'attività lavorativa si era svolta nella sede della T., con i mezzi da questa predisposti, senza il concorso di altra attività lavorativa e, in conclusione, con pieno inserimento del lavoratore nella organizzazione aziendale; in terzo luogo, perché la qualificazione data al rapporto come autonomo e il pagamento del corrispettivo tramite fattura non dovevano considerarsi circostanze decisive, per una diversa decisione, costituendo il nomen iuris del contratto di lavoro un indice interpretativo dell'intento delle parti, di valenza meramente sussidiaria rispetto ai contenuti e alle concrete modalità della attività lavorativa.

Il Tribunale confermava, d'altra parte, la decisione di primo grado anche con riguardo alla domanda di pagamento di differenze retributive (domanda fondata sul presupposto del diritto ad un inquadramento nella categoria dirigenziale), dato che, dalla consulenza tecnica esperita, era risultato che il G. aveva percepito compensi superiori a quelli cui avrebbe avuto diritto come lavoratore subordinato. Su queste premesse, il Tribunale respingeva sia l'appello principale proposto dalla società T. sia quello incidentale proposto dal G.. Avverso questa decisione ricorre per Cassazione la società T. censurandola per violazione di legge e vizio di motivazione. Si è costituito, con autonomo ricorso, il G. resistendo alle avversarie censure.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la s.r.l. ricorrente censura la decisione del Tribunale per violazione degli artt. 1322, 204, 2222 c.c., in ordine alla asserita limitazione della facoltà di scelta del tipo contrattuale, posto che una prestazione lavorativa di durata può essere posta dalle parti liberamente ad oggetto quanto di un contratto di lavoro subordinato, quanto di un contratto di lavoro autonomo.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione degli artt. 1362, 1366, 2094 c.c. per la apodittica ed ingiustificata interpretazione della volontà espressa dalle parti, che avevano qualificato come autonomo il contratto di lavoro, secondo una opzione esplicitamente confermata a livello documentale. In particolare, citando alcuni precedenti di questa Corte, ritiene la ricorrente che il Tribunale ha riduttivamente considerato il nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto, laddove esso assume carattere fondamentale e prioritario, superabile solo attraverso il ricorso alle altre regole ermeneutiche integrative previste dalla legge.

Con il terzo motivo, infine, la ricorrente deduce vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, dato il contrasto tra l'affermata eterodizione della prestazione, per un verso, e l'autonomia della prestazione, per l'altro, mostrata anche dalla assenza di un preciso vincolo di orario di lavoro.

La Corte, procedendo all'esame congiunto dei motivi, ritiene che il punto focale del ricorso è la censura volta ad affermare che il Tribunale ha effettuato una totale, apodittica ed ingiustificata svalutazione, ai fini qualificativi, della volontà espressa dalle parti: dovendosi, al contrario, attribuire all'elemento letterale del negozio - o nomen iuris - nella ricostruzione della comune volontà pattizia, carattere fondamentale e prioritario, superabile soltanto per mezzo del ricorso alle altre regole ermeneutiche integrative previste dalla legge, in ipotesi di non chiarezza, univocità e precisione delle espressioni usate.

Questa, dedotta con il secondo motivo, sembra essere la questione essenziale, posto che, con il primo motivo, si esprimono principi puntuali (quanto alla discrezionalità dell'imprenditore di avvalersi di collaborazioni autonome o subordinate, ai fini dell'impresa, nell'esercizio della autonomia contrattuale di cui all'art. 1322 c.c.) che, peraltro, lasciano del tutto irrisolto il problema della esattezza dei criteri e dei motivi che, in concreto, hanno indotto il Tribunale a considerare subordinato e non autonomo il rapporto di lavoro intercorso tra le parti.

Richiamando, allora, la questione del rilievo negoziale dell'elemento letterale, è indubbio che la giurisprudenza di questa Corte, anche con le più recenti decisioni (si veda, tra le altre, Cass. 8 Marzo 1995, n. 2690, Cass. 29 Maggio 1996, n. 4948) sottolinea la necessità, ai fini della distinzione fra lavoro autonomo e subordinato, di non prescindere dalla preventiva ricerca della volontà dei contraenti; ma questo, peraltro, non significa - come appare da quelle stesse decisioni - che il nomen iuris (ed anche la concreta disciplina del rapporto, quale, ad esempio, il pagamento del compenso con modalità diverse da quelle della ordinaria retribuzione) abbia in alcun caso carattere assorbente, costituendo più semplicemente il dato formale che non può essere omesso nell'interpretazione del precetto contrattuale: in altri termini, il primo indice (precario) del processo interpretativo (art. 1362, primo comma, c.c.), posto che gli esiti di questo non potranno che essere quelli risultanti dal «comportamento complessivo, anche posteriore, alla conclusione del contratto» (art. 1362, secondo comma, c.c.). Il che significa, ricordando Cass. 17 giugno 1996, n. 5532 o Cass. 20 giugno 1995, n. 649, che, ai fini in questione, la pur preliminare indagine sull'effettiva volontà negoziale - diretta ad accertare, anche attraverso il nomen iuris attribuito al rapporto, se le parti abbiano inteso conferire alla prestazione il carattere della subordinazione - non può essere disgiunta da una verifica dei relativi risultati con riguardo alle caratteristiche e modalità concrete assunte dalla stessa prestazione nel corso del suo svolgimento, sì da doversi riconoscere l'acquisizione di quel carattere quante volte tale svolgimento non si mostri coerente con la sua originaria denominazione».

Dunque, può dirsi che, delle due, l'una: o si pensa che si sia voluto assimilare il «nomen iuris» alla intenzione dei contraenti, e non è così, quando si dia una compiuta lettura anche di quelle decisioni che sono richiamate nel ricorso; o altra è la via per ricostruire la volontà delle parti, ed allora questa non pare che quella rilevabile dalle concrete modalità che il rapporto ha avuto nella sua esecuzione. Sì che, per cogliere appieno il senso della giurisprudenza di questa Corte, quando al giudice del merito che abbia qualificato un rapporto come subordinato, cassandone la decisione, si indica la necessità di una più esauriente indagine della volontà negoziale (v., ad esempio, Cass. n. 10251 del 1995) non si intende affatto affermare che vi è l'opportunità di attribuire maggior rilievo al dato formale rispetto a quello fattuale, anzi, il contrario, ovvero sollecitare una più compiuta valutazione delle caratteristiche e modalità della prestazione, per decidere se, in relazione a queste, l'assetto formale del rapporto debba o non essere confermato: né può sfuggire la ratio del metodo ricostruttivo, se ben inteso, fatto proprio dalla Corte, che è evidentemente quella di prevenire una facile elusione di tutele la cui attuazione deve essere specialmente assicurata, per il loro rilievo pubblicistico e il fondamento costituzionale.

A questi principi si è esaurientemente attenuto il Tribunale con la impugnata decisione, ad essi uniformando gli accertamenti istruttori relativi alla collaborazione prestata dal G.: perciò assumendo una decisione corretta, adeguatamente motivata, come tale insindacabile dinanzi a questa Corte. Ciò vale, in particolare, anche per quanto riguarda, l'accertamento - decisivo - inerente la soggezione del resistente al potere direttivo del datore di lavoro, pur partecipando, per le sue mansioni di direttore del personale, alle scelte imprenditoriali, quotidianamente effettuate.

La Società ricorrente, in parte qua della motivazione, rileva una contraddizione che, invece, non esiste, quando si consideri che il potere direttivo del datore di lavoro assume intensità e modalità diverse, in relazione alla natura della prestazione svolta e alle condizioni, sotto il profilo organizzativo, nelle quali la prestazione stessa deve essere resa. Puntuale in proposito è stata Cass. 29 ottobre 1993, n. 1094, per la quale «il potere direttivo del datore di lavoro non si esplica necessariamente mediante ordini continui, dettagliati e strettamente vincolanti, ben potendosi realizzare l'assoggettamento implicito nel concetto di subordinazione attraverso direttive dettate dal datore di lavoro in via programmatica; conseguentemente l'esistenza di un potere disciplinare e gerarchico non è esclusa da eventuali margini, più o meno ampi, di autonomia, di iniziativa, di discrezionalità, dei quali goda il dipendente, dovendo l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione datoriale essere inteso in funzione dei risultati che il datore di lavoro, imprenditore o meno, si propone di conseguire a suo esclusivo rischio».

Principi pienamente condivisibili - dei quali ha fatto buon governo la decisione del Tribunale - se si pensa al lavoro dirigenziale, nel quale, anzi, tanto più intensa è la subordinazione quanto più ampia è l'autonomia, per l'immediatezza del rapporto con l'imprenditore, con l'approssimarsi ai vertici dell'impresa; oppure, sotto il profilo della specialità dell'inserimento nella organizzazione imprenditoriale, se si pensa alla attività del docente, non solo nel settore pubblico ma anche in quello privato, (solo per inciso ricordando che Cass. sez. un. 11 aprile 1994, n. 3353 e Cas. 6 novembre 1995, n. 9395, hanno definito impresa la scuola privata), la cui subordinazione non è affatto esclusa dalla autonomia didattica dell'insegnante, ove concorrano i requisiti della continuità dell'insegnamento, della predeterminazione delle modalità dello stesso (dove e quando), del corrispettivo dovuto, al di là del sistema di pagamento.

Infine, quanto al terzo motivo, ed al vizio di motivazione con esso dedotto, sotto il profilo dell'insufficiente rilievo attribuito dal Tribunale ad una prestazione svincolata da precisi obblighi di orario, ritiene la Corte di rilevare che i precedenti motivi, svolti in ordine al potere direttivo del datore di lavoro, siano assorbenti e comunque che non è vero che un obbligo di orario non esisteva, avendo accertato lo stesso Tribunale che la prestazione si svolgeva secondo un orario a part-time.

Per quanto precede la Corte rigetta il ricorso; le spese di questo giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la Società T.E. ricorrente alle spese di questo giudizio in L. 44.600 oltre a L. 3.500.000 per onorari.

Così deciso in Roma il 4 novembre 1996.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 20 GIUGNO 1997.