Conteggi lavoro

lunedì 18 giugno 2012

La valutazione delle risultanze probatorie rientra nei compiti istituzionali del giudice di merito - Cass., sez. lavoro, sent. n. 5434 del 07.04.2003

Svolgimento del processo

Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. al Pretore - Giudice del Lavoro di Velletri L.M. - che prestava attività di lavoro subordinato, con la qualifica di "inserviente di terzo livello", con le mansioni di "aiutante cuoca", presso la casa di cura "Casa dei SS. A.C." gestita dalla s.r.l. I. - conveniva in giudizio la cennata società chiedendo la declaratoria di nullità e-o illegittimità del licenziamento intimatole con lettera in data 28 ottobre 1997 per avere asportato - secondo quanto contestatole con lettera del 2 ottobre 1997 - generi alimentari (in particolare 3 Kg. di carne) di proprietà della società in correità con altro dipendente della società M.. A sostegno della domanda la ricorrente deduceva la nullità del licenziamento per mancata affissione del cd. "codice disciplinare", l'insussistenza dei fatti contestati e la non proporzionalità tra l'infrazione e la sanzione disciplinare inflittale. Nel relativo giudizio si costituiva la s.r.l. I. che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto. L'adito Pretore rigettava la domanda e il Tribunale di Velletri (quale Giudice del Lavoro di secondo grado) - su impugnativa della parte soccombente e non costituitasi in giudizio la società appellata - "rigetta(va) l'appello e conferma(va) l'impugnata sentenza". Per quello che rileva in questa sede il Giudice di Appello ha rimarcato che: -) "il fatto contestato all'appellante, che riveste carattere di illecito disciplinare e soprattutto di illecito penale, costituisce un comportamento lesivo delle regole fondamentali del vivere civile già conosciuto da ogni componente della collettività, rivesta o meno la qualità di lavoratore, il quale, quindi, non ha necessità di essere informato preventivamente dell'illiceità di siffatto comportamento"; -) "non può dubitarsi della commissione dei fatti così come contestati nella lettera di addebito disciplinare da parte delle appellanti le quali, con la loro condotta criminosa hanno tradito la fiducia, insita nel rapporto di lavoro subordinato, venendo meno ai loro doveri di diligenza e fedeltà"; -) "appare indiscutibile che un comportamento criminoso come quello posto in essere dalle appellanti rivesta i caratteri di estrema gravità in quanto è chiaro che un datore di lavoro non può più avere alle proprie dipendenze dei dipendenti che sfruttando la specifiche mansioni lavorative (nella specie addette alle cucine e alla mensa della "casa di cura"), si dedichino al furto, operando all'interno del luogo di lavoro, escogitando nel contempo un sistema per procurarsi anche l'impunità". Per la cassazione di tale sentenza M. propone ricorso affidato a tre motivi. L'intimata s.r.l. I. non si è costituita in giudizio.

Motivi della decisione

I -. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente - deducendo "violazione della legge n. 300/1970 in relazione alla legge n. 604/1966 e dell'art. 2119 cod. civ." -  rileva che "per ogni ipotesi di risoluzione, qualificata che sia e tuttavia riconducibile alla soggezione del lavoratore alla disciplina del datore, il lavoratore ha diritto al rispetto delle disposizioni di cui al richiamato art. 7, essendo non solo opportuno, ma obbligatorio per il datore che volesse adottare provvedimenti disciplinari, formare ed affiggere un codice aziendale che disciplini modi della prestazione e comportamenti del lavoratore, che non siano apprezzabili secondo la diligenza comune e il generico rispetto di cose e persone... (nella specie) giacché vengono contestate alla ricorrente due mancanze, nei confronti dell'azienda: aver per due volte aiutato la collega a portar via un sacco di plastica dal luogo di lavoro, non potendo tal comportamento che essere riferibile al modo di svolgimento della prestazione di lavoro, comunque si deve tenere requisito preventivo ed indispensabile il codice aziendale che tale comportamento sanzioni". Con il secondo motivo la ricorrente - denunziando "omessa o insufficiente motivazione illogicità ed omissioni nelle valutazioni delle emergenze istruttorie, apoditticità nella valutazione delle testimonianze" - censura la sentenza impugnata "perché il Tribunale non si occupa molto delle emergenze istruttorie e tralascia integralmente di verificare, alla luce delle testimonianze rese, le prospettazioni difensive della ricorrente (atteso che) nessuno dei testi ha dichiarato e nessuna prova è stata offerta dalla azienda, sulla consapevolezza della di ciò che contenevano gli involucri che i giorni 17 e 19 la sua collega M. recava con sè, allorché la ospitava nella sua autovettura". Con il terzo motivo la ricorrente - denunziando "omessa o insufficiente motivazione, illogicità ed omissioni nella valutazione delle emergenze istruttorie, apoditticità nella valutazione delle testimonianze circa il pregiudizio del vincolo fiduciario e la proporzionalità della sanzione" - addebita al Tribunale di Velletri di non avere motivatamente valutato la mancanza di proporzionalità della sanzione rispetto a quanto contestato alla ricorrente che consisteva "nell'aver accolto nella sua autovettura una collega, non di averla aiutata a rubare... non potendo, invero, essere sottaciuto il ruolo di aiutante di cucina della e, dunque, di subordinata alla M.: per cui è di obiettiva degradata intensità dell'elemento intenzionale e colposo, mentre l'elemento della fiducia va valutato con riguardo alle mansioni".

II -. Il primo motivo come dinanzi proposto si appalesa - per la prima parte - infondato e - per la seconda parte - inammissibile. Infatti, con riferimento all'asserzione della ricorrente sull'obbligatorietà dell'affissione del cd. codice "disciplinare" per ogni ipotesi di licenziamento disciplinare, sul versante del rispetto della procedura imposta dall'art. 7 della legge n. 300/1970 si rileva che l'onere di pubblicità del cennato "codice disciplinare", previsto dal primo comma del suddetto art. 7, non si applica al licenziamento disciplinare in presenza di violazioni di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (cfr., ex plurimis, altre: Cass. 21 novembre 2000 n. 14997). Non merita, pertanto, alcuna critica la sentenza impugnata per avere escluso nel caso di specie la necessità di affissione del codice disciplinare sulla base dell'ineccepibile assunto che il fatto contestato alla ricorrente, che rivestiva carattere di illecito disciplinare e soprattutto di illecito penale, costituiva "un comportamento lesivo delle regole fondamentali del vivere civile già conosciuto da ogni componente della collettività, rivestisse o meno la qualità di lavoratore, il quale, quindi, non aveva necessità di essere informato preventivamente dell'illiceità di siffatto comportamento". Per quanto concerne la seconda parte del motivo in esame, le censure inerenti alla valutazione delle risultanze istruttorie così come operata dal Tribunale di Velletri non sono proponibili in sede di legittimità in quanto indebitamente dirette a provocare una nuova valutazione delle risultanze processuali diversa da quella espressa dal giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, essendo sufficiente, al fine della congruità della relativa decisione, che da questa risulti - come sicuramente emerge dalla sentenza del Tribunale di Velletri - che il convincimento nell'accertamento dei fatti su cui giudicare si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti considerati nel loro complesso, pur senza una esplicita confutazione degli altri elementi non menzionati o non accolti, anche se allegati (Cass. n. 10484/2001, Cass. n. 12749/1993). Resta confermata, di conseguenza, l'inammissibilità delle cennate censure in quanto con esse la ricorrente ha inteso irritualmente sollecitare la Corte di Cassazione per un riesame ed una nuova valutazione del "merito della causa", mentre questa Corte ha solo il potere di controllare, sotto il profilo logico - formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, valutare le risultanze processuali, controllarne l'attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le stesse, quelle ritenute più idonee per la decisione (Cass. n. 685-1995, Cass. n. 8653-1994, Cass. n. 10503-1993).

III -. Anche il secondo motivo di ricorso - che costituisce sostanzialmente un "duplicato" della seconda parte del primo motivo - appare inammissibile e ciò per le stesse argomentazioni già addotte per dichiarare l'inammissibilità delle precedenti analoghe censure. A ciò vale aggiungere che, circa gli asseriti vizi di motivazione denunziati dalla ricorrente, il vizio di omessa o errata motivazione deducibile in sede di legittimità sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulti dalla sentenza, sia riscontrabile il deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento in senso difforme da quello preteso dalla parte. Nella specie non si evince, dalla disamina della sentenza impugnata, l'esistenza di un errato o deficiente esame di punti decisivi della controversia dato che, il Giudice di appello, con completa e congrua motivazione in relazione alle risultanze processuali, ha correttamente ed esattamente deciso sulla sussistenza e sulla gravità dell'infrazione disciplinare commessa. In particolare - a conferma dell'inammissibilità delle censure proposte ora in sede di legittimità - vale sintetim ribadire, al fine della verifica (negativa) della ricorrenza dei principi pertinenti ai profili essenziali della dedotta impugnativa, che: a) il difetto di motivazione, nel senso di insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l'obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, - come per le censure mosse, nella specie, dal ricorrente - quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice del merito agli elementi delibati e, in sostanza, all'apprezzamento delle risultanze processuali effettuato, secondo i suoi compiti, dal giudice medesimo (Cass. n. 2114/1995); b) in tema di ammissibilità di impugnativa in sede di legittimità non può essere considerato vizio logico della motivazione la maggiore o minore rispondenza (alle aspettative della parte) della ricostruzione del fatto nei suoi vari aspetti, o un miglior coordinamento dei dati o un loro collegamento più opportuno e più appagante, in quanto tutto ciò rimane all'interno delle possibilità di apprezzamento dei fatti, e, non contrastando con la logica o con le leggi della razionalità, appartiene al convincimento del giudice - come, nella specie, per la decisione del Tribunale di Velletri - senza renderlo viziato ai sensi dell'art. 360, n. 5 cod. proc. civ. (Cass. n. 8923/1994).

IV -. Pure il terzo motivo di ricorso - fondato sull'asserita errata valutazione delle "emergenze istruttorie e delle testimonianze in merito al pregiudizio del vincolo fiduciario e la proporzionalità della sanzione" - appare, sotto il primo profilo, inammissibile e, sotto il restante profilo, infondato. Per quanto concerne le ragioni relative alla statuita inammissibilità vale riportarsi a quanto dinanzi ampiamente argomentato, sicché non è dato indulgere a inutili ripetizioni. In relazione poi alla denunzia di mancato rispetto del principio di proporzionalità di cui all'art. 2106 cod. civ., che la società avrebbe violato nell'infliggere la massima sanzione disciplinare, va richiamato l'indirizzo di questa Corte che ha più volte ribadito che il licenziamento, essendo la più grave delle sanzioni disciplinari, può considerarsi legittima solo se, valutato ogni aspetto del caso concreto - sia nel suo contenuto oggettivo che sotto il profilo psicologico -, la mancanza del lavoratore sia di tale gravità che ogni altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l'interesse del datore di lavoro nonché idonea a far venire meno l'elemento fiduciario costituente il presupposto fondamentale della collaborazione tra le parti del rapporto di lavoro. E gli stessi giudici di legittimità hanno anche precisato come il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato e licenziamento sia rimesso al giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione. Orbene, nella fattispecie in oggetto, il Tribunale di Velletri si è attenuto a tali statuizioni perché ha valutato la condotta della ricorrente sia nel suo aspetto oggettivo sia nei suoi riflessi soggettivi, e con una motivazione congrua e priva di salti logici - e pertanto non censurabile in questa sede di legittimità - ha ritenuto che la violazione commessa dalla lavoratrice dovesse essere adeguatamente sanzionata con il licenziamento. Pervero, questa Corte ha considerato giusta causa che autorizza il licenziamento senza preavviso, alla stregua della "ratio" dell'art. 2119 cod. civ., una mancanza obiettivamente e subiettivamente di rilievo tale da risolversi in una grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e in particolare di quello fiduciario, così da non consentire, neppure in via provvisoria, la continuazione della collaborazione tra le parti che trova, appunto nell'elemento fiduciario, il suo presupposto fondamentale (cfr., ex plurimis, Cass. n. 4175-1997). L'accertamento della sussistenza di una giusta causa deve tener conto di tutti gli aspetti del caso concreto - dovendo il comportamento del lavoratore valutarsi non soltanto nel suo contenuto obiettivo, con specifico riferimento alla natura e alla qualità del singolo rapporto, al particolare vincolo di fiducia che esso implicava per la posizione rivestita nel suo ambito del prestatore di lavoro, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni esercitate nell'organizzazione dell'impresa, alle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, ma anche nella sua portata soggettiva, in relazione cioè alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi che l'hanno determinato e alla intensità dell'elemento volitivo - e risolversi in un giudizio di congruità della sanzione espulsiva per la insufficienza di una qualunque altra sanzione a tutelare l'interesse del datore di lavoro (cfr., ex plurimis, Cass. n. 1667-1996). Ove poi una simile indagine debba compiersi, come nel caso concreto, in relazione ad una contestazione di impossessamento abusivo di beni dell'azienda, si è sottolineato, in particolare (Cass. n. 11506-1997, Cass. n. 4212-1997, Cass. n. 154-1997), che ciò che rileva nella valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso non è l'assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale (rilevanti per la norma "penale"), ovvero la circostanza che il fatto illecito sia stato commesso fuori dal posto e dall'orario di lavoro, ma la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento - in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti - specie quando non sia possibile per il datore di lavoro apprestare sicure difese idonee ad impedire furti o, comunque, manomissioni di beni o materiali aziendali. In merito alla relativa interferenza tra "fatto penale" e "fatto disciplinare" e alla limitata influenza del giudicato penale in sede civile questa Corte ha indicato il principio a mente del quale l'autorità del giudicato penale in sede disciplinare è limitata alla sussistenza dei fatti materiali intesi nella loro realtà fenomenica ed oggettiva, ma essa non preclude una diversa valutazione di quanto avvenuto ai diversi fini propri del giudizio civile (nel cui ambito resta pur sempre processualmente inserita la decisione sul fatto disciplinare), soprattutto in relazione alla distinta configurazione giuridica che in tale giudizio assume "l'infrazione" - e non "il reato" -. Al riguardo è stato aggiunto che le prove acquisite dal giudice penale possono essere utilizzate dal giudice civile, purché siano sottoposte ad un autonomo esame e vaglio critico che prescinda dalla valutazione fattane dal giudice penale, soprattutto se si sono formate in un procedimento nel quale una delle parti non poteva partecipare, e, in ogni caso, con specifico riguardo alla loro attendibilità, correlata anche alle rispettive posizioni processuali (Cass. n. 6334-92). Conclusivamente, con riferimento al carattere "autonomo" del procedimento disciplinare rispetto al processo penale in relazione specifica ai diversi caratteri interessanti la qualificazione giuridica delle "infrazioni" o "reati" e delle "sanzioni" o "pene" sotto i distinti profili "disciplinari" o "penali", resta confermata la differenza tra i rapporti giuridici costituiti dalla norma penale e da quella civilistica: l'una istitutiva di una soggezione a tutela di interessi generali (ancorché correlati ad eventuali interessi particolari di parti lese private), l'altra fonte di soggezione particolare sulla base del rapporto di lavoro volontariamente costituito dalle parti. V -. In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto da Lorenza deve essere integralmente respinto. Non sussistono le condizioni - data la mancata costituzione in giudizio della parte intimata - per una pronunzia sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese di giudizio.

Così deciso, in Roma, il 1 ottobre 2002.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2003