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martedì 29 gennaio 2013

Licenziamento collettivo - mala fede del datore di a lavoro

Massima

In tema di licenziamento collettivo, la comunicazione alle Rappresentanze sindacali aziendali di inizio della procedura deve possedere tutti gli elementi di cui all'art. 4, comma 3, L. n. 223 del 1991, pena l'inefficacia del licenziamento collettivo.

Segue sentenza sul licenziamento collettivo invalido.


Cassazione Civile, sez. lavoro, Sentenza n. 18943 del 16.09.2011

OMISSIS

Svolgimento del processo

Con sentenza del 10 gennaio 2007, il Tribunale di Torino rigettava il ricorso proposto da F.E.L., nei confronti dell'ex datore di lavoro, C. I. spa, volto ad impugnare il licenziamento collettivo intimatole in data 29 marzo 2005 a seguito di procedura di mobilità avviata nel dicembre 2004, di cui aveva contestato la legittimità sia con riguardo alla comunicazione iniziale sia con riguardo ai criteri di scelta indicati nella fase finale di detta procedura, anche in relazione alla loro concreta applicazione.

Avverso tale decisione proponeva appello la F. con articolate argomentazioni, insistendo nelle originarie richieste. Resisteva la Società, chiedendo il rigetto del gravame.

Con sentenza del 20-27 novembre 2008 l'adita Corte d'appello di Torino, in accoglimento della impugnazione, dichiarava l'inefficacia del licenziamento, condannando la C. I. spa a reintegrare la F. nel posto di lavoro ed a corrisponderle, a titolo di risarcimento del danno, una indennità pari alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione, con accessori.

A sostegno della decisione, osservava che la Società, in violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4 aveva omesso di indicare nella comunicazione di avvio della procedura del 2.12.2004, la propria intenzione di procedere ad acquisizione di aziende, con il relativo personale; intenzione che, poco prima dei licenziamenti, nel febbraio del 2005, aveva trovato attuazione con l'acquisto di rami d'azienda della S. E. spa e della S. E. I. I. spa e l'impegno con le parti sociali per un periodo di stabilizzazione del personale ceduto di 12 mesi.

Per la cassazione di tale pronuncia, ricorre la C. I. spa con sette motivi.

Resiste la F. con controricorso proponendo ricorso incidentale condizionato, affidato a tredici motivi.

La C. I. spa resiste, a sua volta, con controricorso, depositando anche memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c).

Con il primo motivo la società ricorrente censura la sentenza della Corte territoriale deducendo la "violazione e falsa applicazione di norma di diritto ex art. 112 c.p.c. principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato". In particolare la C. si duole del fatto che la Corte d'Appello abbia ritenuto che, "scegliendo di nulla dire, l'imprenditore sia venuto meno a quei doveri di trasparenza e correttezza cui deve essere improntata la dialettica tra le parti, a maggior ragione nel caso di una procedura che implica, quale quella di specie, un intervento pubblico". E se ne duole perchè, a suo parere, mentre la F. aveva allegato un fatto posto in essere dal datore, la Corte avrebbe deciso la causa affermando che la condotta datoriale da sanzionare sarebbe una intenzione.

La censura è infondata.

Invero - come specificato nella impugnata pronuncia - la F. ha sostenuto che a dicembre 2004 la C., quando fece la comunicazione preventiva alla procedura di mobilità, aveva deliberatamente nascosto il fatto consistente nelle trattative, negli accordi preliminari che di lì al 3 febbraio 2005 condussero alla firma dell'accordo C./S. per la cessione d'azienda.

Pertanto, la circostanza che il 3 febbraio 2005 S. e C. procedevano alla firma di un accordo in base al quale i dipendenti S. passavano a C. con il vincolo dell'illicenziabilità, induceva a ritenere, senza possibilità di dubbio, che a dicembre 2004 le due società erano in stato avanzatissimo di trattativa, formalizzata in accorsi preliminari, accordi di massima, lettere di intenti.

Allegando questa "incompleta rappresentazione della realtà" da parte di C., la F. ha denunciato, da una parte, la violazione della L. 223, art. 4 (perchè se la norma dispone che indichi "i motivi che determinano la situazione di eccedenza" è ovvio che tale ne dev'esser veritiera e completa, salvo ridursi ad una lustra); e, dall'altra parte, la violazione del dovere di buona fede e correttezza nello svolgimento della procedura.

Il Giudice d'appello ha pronunciato sulla domanda e nei limiti di essa: la domanda era di annullare licenziamento collettivo per violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4 nella parte in cui prevede che la comunicazione preventiva debba indicare "i motivi che determinano la situazione di eccedenza" laddove tale indicazione debba avvenire con verità/trasparenza/completezza secondo i canoni della buona fede e della correttezza, e la Corte ha pronunciato esattamente nei limiti di detta domanda, senza incorrere in extra od ultra petizione.

Va in proposito rammentato che sussiste vizio di "ultra" o "extra" petizione ex art. 112 c.p.c., quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. Tale principio va peraltro posto in immediata correlazione con il principio "iura novit curia" di cui all'art. 113 c.p.c., comma 1, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all'azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass. 23-05-2008, n. 13377). A ciò va aggiunta l'ulteriore precisazione secondo cui "il principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, fissato dall'art. 112 c.p.c., implica unicamente il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa - alla stregua della risultanze istruttorie - autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti nonchè in base all'applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante" (ex multis, Cass. 20-06-2008, n. 16809).

Pertanto, quand'anche la Corte d'appello avesse operato nei sensi denunciati dalla C., basando la propria motivazione sull'assunto che è scorretto l'aver nascosto "l'intenzione" di accollarsi i dipendenti anzichè sull'assunto che è scorretto l'aver nascosto "il fatto" di accollarseli, ciò non costituisce violazione del principio stabilito dall'art. 112 c.p.c.: è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, che l'interpretazione della domanda spetta al Giudice del merito, per cui, ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata - ed era compresa nel "thema decidendum" - tale statuizione, ancorchè erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato che quella medesima motivazione sia erronea. In tal caso, il dedotto errore del Giudice non si configura come "error in procedendo ", ma attiene al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà della parte (Cass. 22/06/2004 n. 11639 Cass. 21/02/2006 n. 3702; Cass. 31-07- 2006, n. 17451). Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando la "violazione e falsa applicazione di norma di diritto (L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3) in relazione all'oggetto della comunicazione, sostiene la correttezza del suo comportamento, in quanto il non far cenno nella comunicazione preventiva alla "questione S." (l1 acquisizione - formalizzata il 3/2/05 ossia un mese dopo la comunicazione ex L. n. 223 de qua - dal gruppo S. di un ramo d'azienda comprensivo di lavoratori per i quali si stabiliva l'illicenziabilità, con ricaduta -come affermato nella impugnata sentenza- sulla scelta dei lavoratori della C. in esubero, poi licenziati), non si poneva in contrasto con la L. n. 223, art. 4 il quale non richiede che l'azienda sveli "i propri piani rispetto alla crescita (comprare nuove aziende, giocare in borsa, o qualsiasi altro modo per far crescere l'azienda)", tanto più che "il datore non può rendere informazioni che sul presente (rebus sic stantibus), escludendo situazioni non rilevanti temporalmente". Anche questo motivo è privo di fondamento.

Invero, come questa Corte ha affermato, jn tema di procedure di mobilità e di licenziamento collettivo, la comunicazione alle r.s.a. di inizio della procedura ha sia la finalità di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva trattativa per la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il processo decisionale datoriale nei confronti dei lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall'azienda. La mancata indicazione nella comunicazione di avvio della procedura di tutti gli elementi previsti dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 invalida la procedura e determina l'inefficacia dei licenziamenti; tale vizio non è ex sè sanato dalla successiva stipulazione di accordo sindacale di riduzione del personale e dalle indicazione in esso di un criterio di scelta dei dipedenti da licenziare, ed il giudice dell'impugnazione del licenziamento collettivo o del collocamento in mobilità deve comunque verificare - con valutazione di merito a lui devoluta e non censurabile nei giudizio di legittimità ove assistita da valutazione sufficiente e non contraddittoria- l'adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura (Cass. n. 15479/2007). Ne discende che il datore deve effettuare in favore del sindacato una esposizione completa, al fine di favorire la gestione contrattata della riduzione del personale di soddisfare un'oggettiva esigenza di trasparenza del processo decisionale, destinato a sfociare nel collocamento in mobilità o nell'intimazione di licenziamenti collettivi, venendo così ad incidere in situazioni soggettive del personale dipendente.

Passando all'ulteriore sollevata questione, ossia sul se "il datore non può rendere informazioni che sul presente (rebus sic stantibus), escludendo situazioni non rilevanti temporalmente", va osservato che nella specie - come emerge dalla impugnata sentenza - la C., quando iniziò la procedura di mobilità, si trovava in una attuale situazione di trattativa pressochè terminata per l'acquisizione del ramo d'azienda S. e di dipendenti illicenziabili provenienti da S., e si trattava di una operazione di portata tale, in quanto incidente anche sugli assetti occupazionali, da dover esser menzionata. Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione di norma di diritto in relazione alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 sostiene che erroneamente il Giudice a quo abbia ravvisato maliziosità nell'omessa completa informazione al sindacato. Il motivo è infondato.

Invero, questa Corte ha ripetutamente chiarito che "pur costituzionalmente riconosciuto (art. 41 Cost.), il diritto datoriale ha un proprio limite negli obblighi di correttezza e buona fede (artt. 1175, 1375 c.c.), immanenti non solo alla stipulazione (l'art 1326 c.c., e segg., ne traggono fondamento) bensì all'interpretazione ed all'esecuzione del contratto (artt. 1366, 1175, 1375 c.c.). Trattasi, nella specie, di una valutazione di merito, operata dal Giudice a quo, incensurabile in questa sede.

Col quarto motivo la società deduce "difetto di motivazione su punto controverso e decisivo", dolendosi del modo - a suo parere eccessivo - con cui la Corte d'Appello ha dato rilievo alla "questione S.".

La C. sembra muovere dal presupposto che la F. non abbia mai allegato che la notizia dello stato delle trattative C./S. avrebbe dovuto comparire nella comunicazione preventiva. Sennonchè, tanto non emerge dalla impugnata sentenza, onde il motivo di ricorso, che si traduce in una lamentela generica piuttosto che di una vera e propria censura su di un punto o capo della motivazione della sentenza impugnata, appare, per questo verso, privo di autosufficienza.

Col quinto motivo la società, denunciando difetto di motivazione su punto controverso e decisivo, sostiene che la Corte d'Appello avrebbe errato nel ritenere provata la malizia discriminatoria in re ipsa nel fatto steso della mancata informazione sulla trattativa con S., ed afferma che "la malizia evoca una intenzionalità qualificata e su tale profilo la sentenza ricorsa non dice assolutamente nulla".

Si tratta, quella della ricorrente, di un'affermazione priva di riscontro normativo, dovendosi, al contrario, nell'impianto della L. n. 223, ritenere la mancanza di trasparenza nella comunicazione come oggettivamente illegittima, senza che residui alcuno spazio per profili di natura psicologica.

Con il sesto motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della norma di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 sostiene che si sarebbe dovuto verificare se il mero fatto delle asserite omissioni informative abbia avuto efficacia causale sulla conclusione positiva o negativa dell'accordo sindacale e ciò nel quadro, degli oneri di diligenza e buona "fede", che si possono esigere dalle parti contrapposte".

Il motivo non è condivisibile non trovando l'assunto alcun fondamento nello spirito e la lettera della legge, essendo, al contrario, il datore tenuto a dare al Sindacato tutte le informazioni, riguardanti il caso.

Inammissibile risulta poi il quesito con cui si chiude il motivo, in quanto la sua formulazione -"se le intenzioni su una possibile acquisizione possano ritenersi informazioni che il sindacato abbia diritto a conoscere solo in caso di dimostrata incidenza sulla eccedenza di personale e sull'esame congiunto della stessa" - risulta del tutto scollegato rispetto all'argomentazione proposta.

Con il settimo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della norma di legge di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 come da determinarsi anche ex artt. 1223, 1225 c.c. e ex art. 1227 c.c., commi 1 e 2 (anche sotto il profilo dell'art. 112 c.p.c., si duole del fatto che la Corte non abbia detratto dal risarcimento liquidato in favore della F. l'aliunde perceptum.

La doglianza è infondata posto che la sentenza impugnata ha chiarito sul punto che non risultava "altra attività lavorativa in capo alla F., di difficile collocabilità sul mercato del lavoro, in considerazione della situazione occupazionale e della sua età anagrafica", mentre ha correttamente affermato che alcunchè andava detratto dal risarcimento del danno a titolo di indennità di mobilità (Cass. n. 2928/05).

Per quanto precede il ricorso principale va rigettato con assorbimento di quello incidentale subordinato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito l'incidentale. Condanna la ricorrente C. I. spa al pagamento, in favore di F.E., delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 4.000,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 18 maggio 2011.