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martedì 8 ottobre 2013

Impresa familiare coltivatrice

Cassazione, Sezione lavoro, Sentenza n. 22732 del 04.10.2013,
Svolgimento del processo

Nell'ambito del giudizio instaurato da O.G. ed O.M.P. contro i germani coeredi O.R. e O.C. per ottenere, previa collazione di tutti i beni componenti l'asse ereditario del loro defunto genitore O. A., la riduzione della quota da quest'ultimo devoluta con testamento a O.R. con reintegra di quelle a loro spettanti e la divisione dei beni ereditari, si costituivano entrambi i convenuti. O.C. eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva per avere fatto acquiescenza al testamento del padre ed aver ceduto al fratello R. la quota indivisa dei beni immobili di sua pertinenza. O.R. chiedeva lo scioglimento della comunione nel rispetto delle disposizioni testamentarie e dei diritti di prelazione a lui spettanti e spiegava, tra l'altro, domanda riconvenzionale per far accertare, ex art. 230 bis c.c., nei confronti della eredità di O.A. i propri crediti in denaro ed in natura derivanti dalla sua partecipazione all'impresa familiare del padre.

Il Tribunale di Mantova adito, in composizione collegiale, con sentenza n. 1123/02 dichiarava ammissibili la domanda riconvenzionale e disponeva la conversione del rito, ex art. 426 c.p.c., con riferimento a quelle attinenti l'impresa familiare ed al lavoro prestato in favore dell'azienda agricola da O.R. in quanto devolute alla cognizione del giudice del lavoro; quindi sospendeva il giudizio relativamente alle altre domande.

Le parti integravano gli atti nel termine concesso e, richiamando le difese già svolte, rassegnavano le rispettive conclusioni. In particolare, O.R. chiedeva: 1) che, ai sensi dell'art. 230 bis c.p.c., venisse accertato e dichiarato che, avendo prestato in modo continuativo, a far data dal 1952, la sua attività di lavoro nella famiglia e nell'impresa familiare di cui il defunto padre era titolare, aveva conseguito il diritto alla partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi nonchè agli incrementi, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) che venisse accertata e dichiarata la proprietà in suo favore della quota di 1/2 dei beni mobili ed immobili relitti da O. A. al momento della morte; 3) che fosse liquidata in suo favore la quota di un mezzo degli utili incrementi dell'impresa familiare di O.A. a far data dal 1952, ponendosi il relativo onere a carico dell'eredità di O.A..

L'adito giudice, con sentenza del 23.3.2006, così decideva:

dichiarava inammissibile la domanda sub 2); accertato che O. R. aveva prestato attività lavorativa nell'impresa familiare di cui era titolare O.A. dal 1954 al 1998, che la sua quota di partecipazione era stata del 20% negli anni 1954-1958, del 40% degli anni 1959 - 1964, del 50% negli anni 1965-1974, del 55% negli anni 1975-1992 e del 60% negli anni 1993-1998, condannava O.G. e M.P., nei limiti della quota di eredità spettante, al pagamento in favore del germano R. della somma di lire 181.463.369 pari ad Euro 93.810,97, oltre interessi legali sui ratei rivalutati dalla scadenza al saldo.

Tale decisione - avverso la quale O.M.P. e G. avevano interposto separati gravami, poi riuniti, di analogo contenuto - veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello di Brescia, con sentenza del 16 marzo 2007, che accertava il credito di Euro 93.810,97 ma nei confronti della massa ereditaria, confermando nel resto la decisione impugnata.

Preliminarmente, rilevava la Corte, che:

a) benchè sussistente il dedotto vizio di omessa pronuncia nei confronti di O.C. - parte in causa, regolarmente costituita in primo grado e rimasta contumace in appello - l'unica conseguenza era che la sentenza doveva essere corretta e ciò tanto nel caso in cui si fosse trattato di un mero errore materiale (risultando dal complessivo contenuto della decisione che la pronuncia era stata emessa anche nei confronti del soggetto pretermesso) tanto nel caso in cui effettivamente si fosse verificata una omessa pronuncia, procedendo ad emettere una sentenza nei confronti di tutte le parti in causa, non ricorrendo alcuna delle ipotesi tassative di rimessione della causa al primo giudice;

b) era fondata l'eccezione di ultrapetizione in quanto il primo giudice aveva condannato i soli coeredi O.G. e M. P. al pagamento della somma individuata come corrispettivo delle prestazioni rese dal fratello R. in favore dell'impresa familiare mentre la domanda era rivolta verso la intera massa ereditaria sulla quale gravava il debito, compresa la quota dello stesso R. ed, ovviamente, di C. la quale non poteva opporre il successivo accordo intervenuto con R. ed in esito al quale si era spogliata dei beni ereditati;

c) che a differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo della società semplice la quale appartiene per quote, uguali o diverse, a più persone, l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c., è del suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili con la conseguenza che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall'art. 2284 c.c. (che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone), ma l'impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero all'asse ereditario del de cuius e rispetto a tali beni i partecipi dell'impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad un quota dei beni o degli utili e degli incrementi ed un diritto di prelazione sull'azienda. La Corte, quindi, osservava:

a) che la L. n. 203 del 1982, art. 48, disciplinava solo i rapporti esterni della impresa familiare coltivatrice e non si applicava al caso in esame riguardante, invece, i rapporti interni alla famiglia coltivatrice disciplinati dalle norme dell'impresa familiare;

b) che nel corso di tutti gli anni in cui i fratelli avevano convissuto con il padre, titolare dell'azienda, ciascuno vi apportava il proprio contributo compatibilmente con l'età e con gli studi svolti e che, successivamente, il rapporto era proseguito con la sola famiglia di O.R. avendo gli altri germani lasciato l'impresa familiare per altre professioni; in particolare, dalla espletata istruttoria era emerso che R. aveva, sin da ragazzo, lavorato continuativamente nell'azienda familiare dedicandosi, dapprima, solo all'attività agricola e, a partire dalla fine degli sessanta, anche alla sua amministrazione e gestione insieme al padre e che nell'azienda aveva lavorato anche la moglie di R. - P.R. - in misura significativa dal 1966;

c) che, nel caso in esame, sin dal 1954 e fino alla introduzione dell'impresa familiare con la riforma del 1975, era esistita una comunione tacita familiare nell'esercizio dell'agricoltura e, comunque, tanto nel caso di comunione tacita familiare che in quello di impresa familiare, il titolare dell'impresa era l'unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante a ciascuno dei familiari che collaboravano ed il diritto del singolo prestatore di lavoro non era condizionato dall'analogo diritto spettante agli altri familiari, in quanto esso era commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato;

d) che occorreva rifarsi alla CTU per determinare la quantità e qualità dell'apporto prestato dai vari componenti l'impresa familiare - onde individuare la rispettiva quota di spettanza sugli utili dell'impresa - e, quindi, per poter stabilire l'eventuale credito a tale titolo vantato da O.R., dedotto il mantenimento del suo nucleo familiare;

e) che a quest'ultimo, in qualità di rappresentante della sua famiglia coltivatrice, andavano liquidate anche le quote sugli utili spettanti ai componenti la stessa (sua moglie P.R. ed i loro figli) in quanto partecipi della impresa familiare di O.A.;

f) che, dunque, considerati attendibili i risultati della CTU espletata e delle successive integrazioni alla stessa, il credito spettante al R. nei confronti della massa ereditaria era pari ad Euro 93.810,97.

Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso O. M.P. e O.G. affidato a sette motivi.

O.R. resiste con controricorso mentre O. C. è rimasta intimata. Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso viene dedotta violazione degli artt. 132 e 161 c.p.c., e viene posto il seguente quesito di diritto "se la omessa indicazione di una delle parti in causa, la omessa trascrizione delle sue conclusioni e, soprattutto, la omessa pronuncia sulle domande svolte nei suoi confronti e sulle eccezioni svolte dalla parte pretermessa costituiscano errori materiali e non piuttosto, come nel caso di specie, altrettante cause di nullità della sentenza ai sensi degli artt. 132 e 161 c.p.c.".

Si assume che la Corte di merito avrebbe fondato la decisione di rigettare il motivo di gravame con il quale era stata dedotta la nullità della sentenza di primo grado (per aver omesso di pronunciarsi nei confronti di O.C., del tutto "dimenticata" nella indicazione delle parti, delle loro conclusioni, nella motivazione e nel dispositivo) procedendo semplicemente ad emendarla sulla scorta di una errata lettura di una decisione di questa Corte (la n. 1814/1984). Diversamente, ricorreva un caso di nullità della impugnata sentenza come emergente da un consolidato orientamento di legittimità.

Con il secondo motivo si ripropone il primo sotto il profilo della omessa o, comunque, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio.

Entrambi i motivi sono infondati.

La Corte di merito ha correttamente applicato il principio affermato da questa Corte secondo cui il giudice d'appello, davanti al quale si deduca che la sentenza di primo grado, nello statuire sulla domanda, abbia mancato di indicare quali attori alcuni dei soggetti che avevano ritualmente introdotto la domanda stessa, ha il potere-dovere di correggere la sentenza, qualora ritenga quella omessa indicazione frutto di errore materiale, per risultare inequivocamente dal suo complessivo contenuto che la pronuncia è stata emessa anche nei confronti di quei soggetti, e, in caso contrario, di pronunciare sulla domanda nei confronti di tutte le parti costituite, emendando così il vizio di omessa pronuncia, mentre resta esclusa ogni possibilità di rimessione al primo giudice, non ricorrendo alcuna delle ipotesi contemplate dall'art. 354 cod. proc. civ. (Cass. n. 1814 del 16.3.1984). Ed infatti, il giudice del gravame, ha eliminato il lamentato vizio pronunciando anche nei confronti della parte pretermessa nella sentenza del Tribunale.

Con terzo motivo viene dedotta errata applicazione ed interpretazione dell'art. 230 bis c.c., mancata applicazione della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 48.

Si evidenzia che erroneamente la Corte di merito aveva ritenuto l'impresa familiare coltivatrice organismo avente natura individuale nei rapporti interni, regolati dall'art. 230 bis c.c., con la conseguenza che il familiare, titolare dell'impresa, era l'unico soggetto passivo obbligato in relazione al diritto di credito spettante agli altri familiari collaboratori mentre, nei rapporti esterni, essa si atteggiava ad organismo collettivo ed era regolata dalla L. n. 203 del 1982, art. 48 cit..

Si censura tale ricostruzione dell'istituto in quanto fondata su una decisione di questa Corte riferita alla impresa familiare mentre, nel caso in esame, veniva in rilievo l'impresa familiare coltivatrice alla quale, invece, per costante giurisprudenza di legittimità, era riconosciuta natura collettiva essendo disciplinata dal menzionato art. 48.

Pertanto, dovendo trovare applicazione alla impresa familiare coltivatrice le norme in materia di società semplice la domanda di liquidazione degli utili, se ed in quanto esistenti e non percepiti, andava rivolta alla impresa e non contro il suo titolare o i suoi eredi escludendosi, quindi, che potesse essere considerato un credito nei confronti della massa ereditaria del titolare defunto.

Con il quarto motivo si deduce violazione dell'art. 2697 c.c., in tema di onere della prova per avere la Corte di merito demandato al consulente tecnico d'ufficio la individuazione della quantità e qualità della partecipazione di O.R. alla impresa agricola familiare, così come l'accertamento di eventuali utili della stessa, laddove la consulenza tecnica non è un mezzo istruttorio che può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume o a supplire carenze probatorie. Viene, inoltre, evidenziato che l'ausiliare aveva fondato il proprio convincimento non su dati reali ma meramente ipotetici e virtuali.

Con il quinto motivo si deduce violazione delle norma in materia di prove, omessa, insufficiente motivazione circa fatti controversi decisivi per il giudizio. In particolare, non si era tenuto conto del contenuto delle dichiarazioni rese dal R. in sede di interrogatorio formale. Con il sesto motivo viene denunciata errata applicazione dell'abrogato art. 2140 c.c., disciplinante la comunione tacita familiare.

Richiamate e ribadite le doglianze espresse nel terzo mezzo, si evidenzia che, in modo sbrigativo, la Corte di merito aveva equiparato la disciplina della comunione tacita familiare a quella della impresa familiare attribuendo ad entrambe natura individuale laddove, invece, anche la prima era stata considerata dalla giurisprudenza una struttura associativa caratterizzata dalla comunanza di tetto e di mensa, dal vincolo parentale o di affinità tra i membri di essa, dalla reciproca assistenza morale e materiale da un'attività lavorativa comune e dalla formazione di un peculio gestito senza particolari formalità od obbligo di rendiconto e destinato indivisibilmente alle esigenze della famiglia ed all'acquisto di beni nell'interesse familiare.

Dunque, nel periodo 1954 - 1975, la domanda di pagamento degli utili intanto sarebbe stata ammissibile se provata la esistenza di usi diversi rispetto alla menzionata disciplina generale e, comunque, andava rivolta verso l'organismo associativo e non certo verso gli eredi di uno dei partecipi della comunione.

Con il settimo motivo viene dedotta violazione dell'art. 112 c.p.c., art. 230 bis c.c., L. n. 203 del 1982, art. 48, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto di liquidare a O.R. anche la quota dei presunti utili spettanti alla di lui moglie P.R. ed ai loro figli per la partecipazione alla impresa agricola familiare di O.A. sul rilievo - del tutto apodittico - che a sua volta la famiglia di O.R. fosse una impresa agricola familiare di cui egli era il rappresentante. Ed infatti, R. O. non aveva mai dichiarato di agire anche per conto dei suoi familiari e, quindi, certamente il giudice del gravame era andato ultra petita.

Tutti i motivi si concludono con quesito di diritto.

Osserva il Collegio che il terzo ed il sesto motivo, da trattare congiuntamente perchè connessi, sono fondati.

Va, in primo luogo, precisato che la decisione richiamata nella impugnata sentenza (Cass. n. 7223 del 15 aprile 2004) effettivamente è riferita alla impresa familiare e non alla impresa familiare coltivatrice rispetto alla quale questa Corte ha avuto modo di precisare in varie decisioni che essa, prevista dalla L. n. 203 del 1982, art. 48, è una specie del più ampio genus dell'impresa familiare, disciplinata dall'art. 230 bis c.c., per cui alla prima sono applicabili i principi relativi alla seconda, in quanto compatibili e che nella previsione legislativa si configura come organismo collettivo, formato dai familiari dei consorziati e finalizzato all'esercizio in comune dell'impresa agricola (cfr. Cass. 13007/1991). Si è, altresì, chiarito che siffatta configurazione riconduce l'impresa familiare coltivatrice all'impresa collettiva e la rende equiparabile alla forma più elementare di essa, la società semplice la cui disciplina è, del resto, significativamente riprodotta, sia pure in parte, nel testo della L. n. 203 del 1982, art. 48, (cfr. Cass. n. 13007/1991; n. 1382/1993; n. 5766/1991; n. 8854/1990). E', quindi, nella normativa in materia societaria ed nei relativi principi generali che va individuata la disciplina della impresa familiare coltivatrice (Cass. n.3626/1996; Cass. n. 1099/2006; Cass. 874/2005 in motivazione).

Pertanto, dalla natura collettiva della impresa familiare coltivatrice discende che non può trovare applicazione al caso in esame il principio applicato dalla Corte di merito e sul quale è fondata la decisione qui impugnata secondo cui l'impresa familiare di cui all'art. 230 bis c.c., ha natura individuale ed appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili con la conseguenza che, in caso di morte del titolare, non è applicabile l'art. 2284 c.c. - disciplinante lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone - ma l'impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero all'asse ereditario del de cuius e rispetto a tali beni i componenti dell'impresa familiare cessata possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad un quota dei beni o degli utili e degli incrementi ed un diritto di prelazione sull'azienda. Al contrario, va applicata la norma dell'art. 2284 c.c., e, dunque, l'impresa familiare coltivatrice continua e la quota del familiare consorziato defunto confluisce nell'asse ereditario dello stesso, al valore che aveva al momento dell'apertura della successione (sempre che gli altri partecipi dell'impresa non intendano sciogliere l'impresa o proseguirla con gli altri eredi).

La natura collettiva dell'impresa comporta, altresì, che obbligati in relazione al credito per gli utili - se ed in quanto esistenti - spettante a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia sono l'impresa familiare e gli altri familiari consorziati e di tale obbligazione essi ne rispondono con i beni comuni. E' contro costoro, dunque, che va rivolta la domanda intesa alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell'impresa familiare coltivatrice in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato e non nei confronti degli eredi del capofamiglia defunto.

Nel caso in esame, dunque, O.R. avrebbe dovuto proporre le domande oggetto del presente giudizio nei confronti dell'impresa familiare coltivatrice o nei confronti dei suoi partecipi, non nei riguardi dei germani G., M.P. e C..

Ed infatti è circostanza pacifica che partecipi dell'impresa familiare coltivatrice all'epoca della morte di O.A. erano quest'ultimo, suo figlio R. e P.R. moglie di R. e che gli altri figli di A. e germani di R. - O.G., M.P. e C. - da tempo, sin dagli anni settanta, ne erano rimasti estranei (circostanza questa data come pacifica nella impugnata sentenza sul punto non oggetto di alcuna censura).

Va, a questo punto, rilevato con riferimento al periodo anteriore alla introduzione dell'istituto della impresa familiare che tra i componenti della famiglia O. era sussistita una comunione tacita familiare, anch'essa organismo collettivo. Ed infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 7981 del 02/04/2013; Cass. n. 1688 del 17/02/1987), la comunione tacita familiare prevista dall'art. 2140 c.c. (abrogato dalla L. n. 151 del 1975, art. 205, sulla riforma del diritto di famiglia), è caratterizzata, oltre che dalla comunanza di lucri, di perdite, di mensa e di tetto, dalla formazione di un "unico peculio", gestito senza particolari formalità ed obblighi di rendiconto, destinato "indivisibilmente" a fornire i mezzi economici necessari ai bisogni della comunità familiare. Nel caso in esame è dato pacifico che detta comunione sia continuata senza soluzione di continuità come impresa agricola familiare nella quale, quindi, era confluito il "peculio" della comunione (se ed in quanto esistente) e, dunque, non vi erano quote da liquidare in conseguenza del suo scioglimento.

Peraltro, come detto, a partire dagli anni settanta nessuno dei germani di O.R. aveva continuato a prestare la propria attività nell'impresa agricola svolta dalla famiglia. Dal che discende che O.R. non può rivendicare la propria quota di utili per la partecipazione alla comunione tacita familiare per la semplice ragione che egli non ne era uscito - cosa che, invece, avevano fatto i suoi germani - continuando ad esercitare l'attività agricola con il padre A., come impresa familiare nella quale erano confluiti i beni facenti parte del "peculio" della comunione.

L'accoglimento del terzo e del sesto motivo di ricorso, comportando il difetto di legittimazione passiva di O.G., M. P. e C. in riferimento alle domande riconvenzionali spiegate da O.R. determina l'assorbimento degli altri motivi.

Il ricorso va, dunque, accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della originaria domanda proposta da O.R..

La peculiarità della vicenda e delle questioni trattate inducono la Corte a ritenere compensate tra le parti le spese dell'intero processo.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso, cassa la impugnata sentenza e decidendo nel merito rigetta l'originaria domanda di O. R.; compensa le spese dell'intero processo.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2013