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martedì 13 marzo 2012

INFORTUNIO DURANTE RAPINA IN BANCA - CASS. SENTENZA N. 3033 DEL 28.02.2012

Svolgimento del processo

Con sentenza del 2 luglio 2009 la Corte d'Appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di Foggia del 6 ottobre 2006 con la quale è stata rigettata la domanda proposta da A.G. intesa ad ottenere la condanna della Banca di Roma s.p.a. al pagamento in suo favore della somma di L. 46.900.000 a titolo di risarcimento danni per asserito infortunio sul lavoro subito nella qualità di dipendente della stessa Banca in occasione di una rapina perpetrata presso l'agenzia (OMISSIS) del medesimo istituto. La Corte territoriale ha motivato tale sentenza considerando che la Banca aveva adempiuto all'obbligazione di cui all'art. 2087 cod. civ. essendo stata accertata, presso la filiale di (OMISSIS) della Banca di Roma, l'osservanza degli standard di sicurezza presenti in tutte le altre filiali dell'Istituto, ed inoltre il lavoratore non aveva allegato ulteriori sistemi di sicurezza, suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche o dagli standard di sicurezza normalmente osservati, che la Banca avrebbe potuto o dovuto osservare.

L' A. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su cinque motivi.

Resiste con controricorso l'Unicredit s.p.a. in proprio e quale incorporante l'Unicredit Banca di Roma s.p.a. succeduta alla Banca di Roma s.p.a. e presenta memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2087 e 2697 cod. civ., con riferimento all'asserito errore in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel gravare il lavoratore creditore, oltre che dell'onere di allegazione delle misure di sicurezza che si assumono violate, anche della prova dell'avvenuta violazione, mentre invece spetterebbe al datore di lavoro provare che il danno subito dal dipendente si è verificato per causa a lui non imputabili.

Con secondo motivo si deduce omessa e contraddittoria motivazione circa un punto fondamentale della controversia con riferimento al mancato accertamento dell'osservanza di eventuali sistemi di sicurezza maggiormente idonei rispetto a quelli adottati dalla Banca di Roma, essendosi limitata la Corte d'Appello a considerare l'adozione delle misure standard adottate nelle altre filiali del medesimo istituto.

Con terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ., non avendo la Corte territoriale accertato l'osservanza di eventuali sistemi di sicurezza maggiormente idonei, ed avendo fatto ricadere sul lavoratore tale mancato accertamento su circostanza decisiva che sarebbe stato onere del datore di lavoro provare.

Con il quarto motivo si assume insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia con riferimento al fatto costituente l'inadempimento dell'obbligo di sicurezza. In particolare si assume che la Corte territoriale avrebbe ritenuto la mancata allegazione di tale inadempimento mentre nel ricorso introduttivo erano stati dettagliatamente indicati i sistemi di sicurezza omessi, per cui la Banca di Roma avrebbe dovuto provare la mancanza di nesso causale fra l'omissione dei sistemi di sicurezza indicati dal lavoratore, e l'evento.

Con il quinto motivo si lamenta violazione dell'art. 2697 cod. civ. e artt. 115 e 116 cod. proc. civ.. In particolare si assume che erroneamente la Corte d'Appello avrebbe affermato che il lavoratore non avrebbe provato la mancata adozione da parte della Banca di Roma delle misure necessarie ad impedire il verificarsi del danno, in quanto tale prova sarebbe stata fornita dalle prove testimoniali indicate nel ricorso introduttivo e ritualmente espletate.

I motivi possono essere esaminati congiuntamente facendo tutti riferimento all'inadempimento della Banca resistente, alla allegazione delle misure di sicurezza omesse, ed all'onere probatorio, argomenti tutti, fra l'altro, strettamente connessi fra loro.

Posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell'art. 2087 cod. civ., sul piano della ripartizione dell'onere probatorio al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonchè il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre - in parziale deroga al principio generale stabilito dall'art. 2697 cod. civ. - non è gravato dall'onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell'inadempimento.

Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza - asseritamente omesse - siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici (quali le misure previste dal D.Lgs. n. 626 del 1994 e successive integrazioni e modificazioni, come dal precedente D.P.R. n. 547 del 1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 cod. civ., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso - riferibile alle misure di sicurezza cosiddette "nominate" - il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa - ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere - nonchè, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno. Nel secondo caso - in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette "innominate" - la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorchè non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli "standard" di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. 25 maggio 2006 n. 12445). Nel caso in esame la Corte territoriale, facendo corretta applicazione di tali principi, ha considerato gli standard di sicurezza normalmente osservati individuandoli, a seguito delle prove testimoniali assunte, in quelli osservati nelle altre filiali del medesimo istituto bancario resistente. Dal canto suo il lavoratore ricorrente, a fronte della logica affermazione della sentenza impugnata secondo cui non è emersa alcuna negligenza da parte della Banca di Roma o alcuna violazione degli obblighi di sicurezza, non ha indicato, nel ricorso per cassazione, le misure che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare e che la Corte territoriale non avrebbe considerato, nè ha indicato almeno in quali atti sarebbe possibile rinvenire l'indicazione di tali misure asseritamente allegate, ed il loro contenuto che la stessa Corte d'appello non avrebbe esaminato o valutato. Per cui il motivo di gravame violerebbe comunque anche il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione.

Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna da ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 30,00 oltre ad Euro 2.000,00 per onorario, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..