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venerdì 20 aprile 2012

Concetto di retribuzione e criterio di onnicomprensività - Cass., Sez. Lavoro, sent. n. 24657 del 06.10.2008

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato in data 10.11.1998 avanti al Pretore del Lavoro di Salerno l'avvocato S.P., dipendente del C. (ora OMISSIS) dal novembre del 1978 in qualità di responsabile dell'area legale, premesso che con Delib. 16 giugno 1978, n. 246, della Commissione Amministratrice - recepita dall'Assemblea Generale del Consorzio con Delib. n. 546 del 1978, - gli era stato riconosciuto il diritto a percepire i diritti ed una parte degli onorari liquidati da terzi (Autorità Giudiziaria, Compagnie di Assicurazioni ecc.) in relazione all'attività di procuratore legale dell'Azienda, convenne in giudizio la parte datoriale dolendosi che quest'ultima, nell'accantonare le retribuzioni utili ai fini del calcolo dell'indennità di anzianità e poi del TFR, non avesse incluso nel computo i compensi in questione; assumendo il carattere continuativo, regolare e non occasionale dei suddetti compensi e, pertanto, la loro computabilità a tali fini, chiese che fosse dichiarato l'obbligo del loro inserimento nel calcolo delle retribuzioni utili.

Radicatosi il contraddittorio e sulla resistenza della parte datoriale (secondo la quale i compensi de quibus non erano causalmente collegati al ruolo di responsabile dell'area legale, ma alla funzione di difensore di volte in volta conferita, con conseguente non riconducibilità nell'ambito del trattamento economico erogato), il Giudice di primo grado rigettò il ricorso, rilevando che i compensi corrisposti al S. per l'attività di procuratore legale trovavano nel rapporto di lavoro svolto alle dipendenze dell'Azienda una mera occasione, avendo causa nel mandato professionale di volta in volta conferito e non già nell'obbligo di prestazione collegato al rapporto di lavoro.

Con sentenza in data 29.9 - 3.11.2004, la Corte d'Appello di Salerno respinse l'impugnazione proposta dal S., rilevando che, sulla base delle emergenze processuali acquisite, nella fattispecie faceva difetto il carattere di continuità nel tempo, desumibile anche dalla normalità dell'erogazione, dei compensi de quibus, in particolare osservando che:

- i compiti di natura professionale assegnati al S. si sommavano alle prestazioni di carattere prevalentemente amministrativo al medesimo richieste;

- i diritti e gli onorari erogati costituivano il corrispettivo della sua attività di rappresentanza e difesa dell'Ente;

- al S. non era stata mai conferita una procura generale alle liti, ma incarichi stabiliti di volta in volta da apposite delibere, nel mentre veniva fatto ricorso anche a professionisti esterni, cosicchè l'attività defensionale non aveva costituito una funzione strettamente connessa al rapporto che legava il S. al Consorzio, ma un incarico occasionale, seppure caratterizzato da una certa ripetitività;

- il prospetto dei compensi erogati al titolo in parola nel corso degli anni dimostrava la variabilità dei compensi stessi, costituente espressione della discontinuità degli incarichi corrispondenti, e la modestia delle erogazioni a fronte del trattamento economico ricollegato al rapporto di impiego, costituente conferma della relazione di mera occasionante esistente con quest'ultimo.

Avverso l'anzidetta sentenza della Corte territoriale S.P. ha proposto ricorso per cassazione fondato su un unico motivo.

L'intimata C. - OMISSIS, ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con l'unico motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione dell'art. 2120 c.c., nonchè vizio di motivazione, deducendo che doveva essere riconosciuta l'intima connessione tra l'attività di assistenza in giudizio da lui prestata e il collaterale rapporto di lavoro quale responsabile dell'ufficio legale, costituente presupposto essenziale della prima, essendo stato documentalmente provato, a prescindere dalle concrete modalità di conferimento degli incarichi, l'obbligo di esso ricorrente di prestare l'attività professionale a favore dell'Ente; inoltre la motivazione non appariva congrua laddove aveva ritenuto che la variabilità dei compensi e la modestia delle erogazioni sarebbe stata diretta conseguenza del carattere occasionale e discontinuo di tali compensi e della non ordinarietà dell'attività di assistenza legale, dovendosi per contro comprendere nel computo del TFR tutte quelle voci che, indipendentemente dalla frequenza della loro corresponsione, sono istituzionalmente e ordinariamente connesse al rapporto di lavoro subordinato.

2. Osserva il Collegio che, secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità, il concetto di retribuzione recepito dall'art. 2118 c.c., comma 2, (ai fini del calcolo dell'indennità di preavviso in caso di licenziamento) e art. 2120 c.c., (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio dell'onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse le somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand'anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorchè collaterale e collegato al rapporto di lavoro (cfr, Cass., n. 8496/2000), cosicchè vanno considerati anche i compensi percepiti a titolo di diritti di procuratore ed onorar di avvocato quando abbiano carattere di continuità nel tempo, deducibile dalla normalità della loro erogazione (cfr, Cass., n. 6977/1995).

A tali principi di diritto si è conformata la Corte territoriale, onde va esclusa la sussistenza del lamentato vizio di violazione di legge.

3. La valutatone della sussistenza delle condizioni legittimanti la ricomprensione degli emolumenti erogati per attività professionale nella retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto costituisce accertamento fattuale, come tale devoluto al giudice del merito e insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivato.

Al riguardo costituisce consolidato e condiviso principio quello secondo cui il ricorrente per cassazione che lamenti un vizio di omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata è tenuto ad indicare quali sono i vizi e le contraddizioni nel ragionamento del giudice di merito che non consentono l'identificazione del procedimento logico - giuridico posto a base della decisione e non può limitarsi a sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal giudice di merito, poichè il giudice di legittimità non ha il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale e di sostituire una propria valutazione a quella data dal giudice di merito, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte da quel giudice (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 27464/2006; 8718/2005; 12467/2003).

Nel caso di specie il ricorrente, a fronte di una motivazione coerente e logicamente articolata, lungi dall'indicare quei vizi e quelle contraddizioni (in effetti insussistenti) che non consentirebbero la comprensione dell'iter argomentativo seguito nella sentenza impugnata, si è limitato, nella sostanza, a prospettare e richiedere una diversa lettura del materiale probatorio acquisito, per di più incorrendo nella violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non avendo ivi riportato il contenuto degli atti da cui, secondo il suo assunto, sarebbe derivato il dedotto obbligo di prestazione dell'attività professionale a favore della parte datoriale.

Onde, sotto il profilo del preteso vizio di motivazione, il motivo si presenta inammissibile.

4. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso va pertanto rigettato, conseguendo, secondo il criterio della soccombenza, la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 17,00, oltre ad Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2008.