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giovedì 26 aprile 2012

Litigio tra colleghi con passaggio a vie di fatto all'interno dei luoghi di lavoro - Cass. sent. n. 2906 del 14.02.2005

Svolgimento del processo

Con ricorso al Giudice del lavoro in data 11 marzo 1999, M. T. impugnava il licenziamento intimatogli dal S.G. s.p.a. il 24 giugno 1997, per essere venuto alle mani con un compagno di lavoro. La convenuta si costituiva, contestando la domanda.

Con sentenza n. 249/01. Il Tribunale di Tempio Pausania annullava il licenziamento ed ordinava alla società di reintegrare il T. nel posto di lavoro, con condanna al pagamento delle mensilità dovute dalla data di licenziamento sino alla reintegrazione.

Proponeva appello il S.G. s.p.a. e la Corte d'Appello di Cagliari - Sez. Distaccata di Sassari -, in totale riforma della sentenza, impugnata rigettava la domanda del T..

La Corte riteneva che, sulla base della stessa istruttoria svolta in primo grado, il T. nella vicenda non avesse avuto un ruolo meramente passivo - come ritenuto dal primo Giudice -, ma avesse partecipato attivamente al litigio, dopo aver provocato con pesanti epiteti l'avversario. Pertanto, il licenziamento doveva ritenersi correttamente intimato, posto che il C.C.N.L. di categoria prevedeva come giusta causa di licenziamento il violento litigio sul posto di lavoro, onde era da censurare la sentenza di primo grado che, viceversa, aveva affermato che eventualmente la condotta del T. andava sanzionata con una misura disciplinare meno grave.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre M. T. con tre motivi.

Resiste il S.G. S.P.A. con controricorso.

Entrambe le parti hanno presentato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, il T. denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.) ed in particolare
A) - omessa motivazione in relazione alla testimonianza del teste C.;
B) - omessa ed insufficiente motivazione in ordine alla deposizione del teste C.;
C) - omessa e insufficiente motivazione in relazione alla deposizione del teste M.;
D) - omessa motivazione in ordine alla applicabilità al rapporto di lavoro del CCNL di categoria;
E) - contraddittorietà ed illogicità della motivazione. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c), nonchè omessa motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia; il tutto in relazione all'art. 2119 c.c., nella parte in cui prevede che il giudice non sia vincolato alla pattuizione collettiva nell'esaminare la condotta che si asserisce integrare la giusta causa di licenziamento. Con il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c) e omessa motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia, con riguardo all'art. 2106 c.c., nella parte in cui prevede che le sanzioni disciplinari debbano essere applicate in relazione alla gravità dell'infrazione.

Vanno per prime esaminate congiuntamente le censure di omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia sub A)- B)- e C)-, trattandosi, tutte, di doglianze circa la valutazione che il Giudice di appello avrebbe o non avrebbe compiuto in ordine alle deposizioni dei testi indicati nel presente ricorso.

Sotto questo profilo le censure, sviluppate con riferimento alla deposizione di detti testi, prospettate come vizi di omessa e insufficiente motivazione, appaiono inammissibili, in quanto presuppongono in capo alla Corte di Cassazione la potestà di esaminare e valutare autonomamente il merito della decisione, laddove invece la Corte ha la potestà di controllare sotto il profilo giuridico-formale e della correttezza giuridica l'esame e la valutazione compiuti dal giudice di merito, cui è riservato l'apprezzamento dei fatti.

Va in proposito rammentato che - come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare (cfr., in particolare, tra le tante, Cass. sez. un. 27 dicembre 1997 n. 13045) - il vizio di motivazione non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello auspicato dalle parti, perchè spetta solo al giudice del merito di individuare le fonti del proprio convincimento ed all'uopo valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dall'ordinamento. Ne consegue che il giudice di merito è libero di formarsi il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori che ritiene rilevanti per la decisione, senza necessità di prendere in considerazione tutte le risultanze processuali e di confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento, dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene specificamente non menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.

In questa prospettiva, pertanto, il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione del giudice del merito non deve tradursi in un riesame del fatto o in una ripetizione del giudizio di fatto, non tendendo il giudizio di Cassazione a stabilire se gli elementi di prova confermino, in modo sufficiente, l'esistenza dei fatti posti a fondamento della decisione.

Il controllo, dunque, non ha per oggetto le prove, ma solo il ragionamento giustificativo. Esso ripercorre l'argomentazione svolta nella motivazione dal giudice del merito a sostegno della decisione assunta e ne valuta la correttezza e la sufficienza.

Orbene, nella fattispecie de qua il Giudice del merito ha preso in esame, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, le testimonianze rese dai vari testi, - anche se, dei tre menzionati in ricorso, indica i soli C. e M. - e le ha valutate, quanto alla ricostruzione dei fatti, nel contesto di tutte le altre testimonianze, spiegando in motivazione quale sia stato il procedimento logico-giuridico che lo ha portato a determinate conclusioni circa il fatto. In realtà con il ricorso per Cassazione proposto dal T. è richiesto un nuovo esame ed una nuova vantazione delle prove acquisite, intendendosi attribuire agli elementi vagliati valore e significato diversi rispetto a quelli attribuiti dal Giudice d'appello.

Le esaminate censure vanno, pertanto, disattese.

Con altra censura, proposta nell'ambito del medesimo motivo, il ricorrente denuncia omessa motivazione in ordine alla applicabilità al rapporto di lavoro de quo del CCNL di categoria, lamentando che la sentenza impugnata non abbia precisato quali erano i riscontri probatori in forza dei quali ha ritenuto "sicuramente applicabile" al rapporto de quo il CCNL di categoria, che sanziona con il licenziamento il litigio sul luogo di lavoro.

La censura è priva di fondamento, giacchè l'affermazione "sicuramente applicabile" trova riscontro nel richiamo, sia nel ricorso introduttivo che nella memoria di costituzione, al CCNL "Settore Legno, Sughero, Mobile, Arredamento e Boschivi e Forestali", oltre che nell'assenza di ogni contestazione, nel giudizio di merito circa la sua applicazione.

Pertanto, la valutatone della gravità del comportamento del T., effettuata dalla Corte territoriale sulla base della contrattazione collettiva, risulta del tutto corretta, anche alla luce del secondo e terzo motivo di gravame, sopra sinteticamente esposti.

Ed invero, pur essendo corretto sostenere che la nozione di giusta causa (art. 2119 c.c.) sia una nozione legale e che pertanto il giudice non sia tendenzialmente vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi, tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice fare riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti, del resto rispondenti - in linea di principio - a canoni di normalità sociale.

E se è vero che l'accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto, prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi, è anche vero che il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, solo in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.

Questa valutazione rientra, però, nella competenza del giudice di merito. Nella presente fattispecie, trattandosi di litigio tra colleghi di lavoro con passaggio a vie di fatto all'interno dei luoghi di lavoro, il Giudice di merito, non solo ha ritenuto la corrispondenza del fatto alla previsione della norma contrattuale, ma ha anche escluso, con congrua motivazione, che le circostanze concrete con cui esso si era verificato fossero tali da limitare o ridurne la gravità. In proposito, la Corte territoriale ha tenuto, infatti, a precisare che il T. "dopo avere provocato l'avversario con pesanti epiteti, quando costui è passato a vie di fatto - limitato, peraltro, ad una spinta che ha gettato il T. su un mucchio d turaccioli-, ha reagito usando uno strumento atto ad offendere, quale, senza dubbio, è una scopa"; ed ancora che "di nessuna rilevanza, poi, è il fatto che il T. avesse mansioni particolarmente modeste, mentre Tessersi la condotta del T. concretizzata nel provocare l'avversario, lungi dal diminuire la gravità della mancanza contestata, rende il prevenuto l'artefice del passaggio a vie di fatto". Deve escludersi, quindi, che la motivazione della sentenza impugnata prescinda da una valutazione della congruità e proporzionatezza della sanzione disciplinare, avendo operato anche in concreto con riferimento alle circostanze del fatto una congrua valutazione della gravità della condotta posta in essere dal T. nel pieno rispetto del principio di proporzionatezza ed in conformità dei contratti collettivi (art. 2106 c.c.).

Con l'ultima censura, contenuta nel primo motivo, il ricorrente lamenta contraddittorietà ed illogicità della motivazione, in quanto "secondo l'assunto della Corte il T. per non incorrere in sanzioni non avrebbe potuto porre in essere neppure una minima reazione difensiva, bensì avrebbe dovuto subire l'aggressione fisica dell'antagonosta ...".

Anche detta censura non può trovare accoglimento, non ravvisandosi nella motivazione della sentenza alcuna illogicità o contraddittorietà.

Invero, il Giudice a quo ha messo in evidenza che nel violento litigio con passaggio a vie di fatto, secondo le testimonianze ragionevolmente valutate, il T. non ne era stato la vittima inerte, ma vi aveva partecipato attivamente, ed anzi era stato lui stesso a darvi origine apostrofando il Sanna con espressioni particolarmente offensive in un ambiente di lavoro.

Nessuna rilevanza, peraltro - a parere del Giudice di merito - aveva al riguardo, al fine di escludere la sua partecipazione attiva, la circostanza che egli abbia subito, al pari del S., lesioni personali.

Non ravvisandosi, quindi, nella impugnata decisione i dedotto vizi di motivazione e le denunciate violazioni di legge, il ricorso deve essere rigettato.

Ricorrono giusti motivi per dichiarare compensate, tra le parti, le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2004.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2005