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lunedì 7 maggio 2012

Il trasferimento del dirigente di una rappresentanza sindacale aziendale è consentito solo previo nulla osta dell'associazione sindacale di appartenenza - casistica - Cass. sent. n. 1684 del 05.02.2003

Svolgimento del processo

Con decreto pronunziato il 9 gennaio 1996 ex art. 28 L. 20 maggio 1970 n. 300, il Pretore di Roma - pronunziando sul ricorso proposto dalla Federazione Funzione Pubblica CGIL, Comprensorio di Roma, nei confronti dell'Associazione A. V. - dichiarava l'antisindacalità del comportamento della suddetta Associazione, la nullità del trasferimento della L. (sua dipendente), disposto in data 14 giugno 1994, nonché la nullità del licenziamento intimato alla stessa L. il 12 luglio 1994; ordinava alla Associazione di astenersi dal disconoscere la qualità di dirigente della rappresentanza sindacale aziendale alla L. nonché il potere di negoziare le questioni rimesse alla contrattazione decentrata; rigettava le restanti richieste della Organizzazione ricorrente; condannava, infine, la parte resistente al pagamento delle spese.

A seguito dell'opposizione dell'Associazione, il Pretore con sentenza del 12 febbraio 1998 revocava il decreto ex art. 28 L. 20 maggio 1970 n. 300 e condannava l'opposta al pagamento delle spese del giudizio.

A seguito di gravame proposto dalla Federazione Funzione Pubblica CGIL, il Tribunale di Roma con sentenza del 5 giugno 2001, in riforma dell'impugnata sentenza, dichiarava la antisindacalità del trasferimento della L. e del suo successivo licenziamento, condannando la parte appellata al pagamento delle spese.

Nel pervenire a tali conclusioni, il Tribunale premetteva che non poteva essere negata alla L. la qualifica di rappresentante sindacale aziendale, per la cui nomina lo statuto dei lavoratori non richiede alcuna modalità o forma rigida. Del resto la L. aveva svolto nei fatti e, per lungo tempo senza alcuna contestazione, un ruolo attivo e propulsore della rappresentanza dei lavoratori costituita all'interno della Associazione A. V., come si evinceva anche dalla prova per testi e dalla documentazione acquisita.

Ne conseguiva che alla L. spettavano le prerogative che la legge 20 maggio 1970 n. 300 attribuisce a ciascun rappresentante sindacale aziendale ed, in particolare, il diritto ai permessi di cui all'art. 23 e la speciale tutela prevista dall'art. 22 in tema di trasferimenti. La sanzione irrogata per fruizione dei permessi sindacali che si assumevano non spettanti doveva ritenersi, conseguentemente, illegittima come del resto ugualmente illegittimo era il trasferimento, pacificamente adottato in assenza della preventiva richiesta della organizzazione di appartenenza. Entrambi tali atti risultavano diretti a limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale della Federazione Funzione Pubblica CGIL.

Il Tribunale osservava poi che il licenziamento adottato il 12 luglio 1994 seguiva di qualche giorno il trasferimento della L. ad una unità produttiva diversa (14 giugno 1994), il quale a sua volta era stato adottato a meno di un mese dalla sanzione disciplinare. Per di più, il suddetto licenziamento - sulla scorta della contestazione del 1 luglio 1994 (l'avere affisso un comunicato nella bacheca sindacale ritenuta lesiva dell'elemento fiduciario) - non risultava sorretto da giusta causa, non essendo ravvisabile. in tale documento, contrariamente a quanto sostenuto dall'Associazione, alcuna espressione in grado di ledere l'onorabilità dell'Associazione stessa, in quanto detto comunicate; si presentava come legittima espressione della libertà di pensiero per contenere una critica civile e non violenta.

Per concludere, si era in presenza di una condotta diretta nel suo insieme ad ostacolare in maniera assolutamente radicale l'esercizio dell'attività sindacale della Federazione Funzione Pubblica attraverso il licenziamento di un suo dirigente sicché il quadro generale di chiusura alle varie istanze sindacali, costituzionalmente garantite, assumeva valore indicativo non trascurabile della antisindacalità della condotta, per la configurabilità della quale non assumeva alcun rilievo la sussistenza dell'elemento psicologico, e cioè l'intenzione dolosa o colposa del datore di lavoro.

Avverso tale sentenza l'Associazione A. V. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

Resiste con controricorso la Federazione Funzione Pubblica CGIL - Comprensorio di Roma.

Ambedue le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso l'Associazione denunzia errata, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza resa dal giudice del gravame in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c. n. 5), nonché violazione ed errata interpretazione degli artt. 19, 22, e 23 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (art. 360 n. 3 c.p.c.) nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.). Sostiene la ricorrente che dall'istruttoria espletata emergeva che la Federazione aveva riconosciuto la qualifica di dirigente, relativamente all'attività svolta nell'ambito della rappresentanza sindacale dell'Ente, alla sola signora Christiane Haas, la quale fruiva periodicamente dei permessi sindacali, di cui all'art. 23 stat. lav. In data 2 febbraio 1994 la Federazione aveva poi provveduto a comunicare all'Ente - proprio in relazione al rinnovo del Comitato degli iscritti - la nomina di due nuovi delegati (da aggiungersi a quelli già eletti) nelle persone dei signori Donatella L. e Roberto Trani, senza nulla precisare in ordine alla posizione sindacale della L., che negli anni precedenti era stata semplice componente della rappresentanza sindacale aziendale, mai aveva rivestito la carica di dirigente e mai aveva fruito di permessi di cui all'art. 23 stat. lav.

Solo in data 16 giugno 1994 - e dunque successivamente alle vicende di causa - la Federazione Funzione Pubblica CGIL, rettificando la precedente nota del febbraio 1994, aveva precisato che la L. era "Coordinatrice Dirigente". La sentenza impugnata andava, pertanto, censurata nella parte in cui aveva considerato la L. un dirigente sindacale perché l'art. 23 stat. lav., in relazione al numero dei dipendenti occupati dall'Associazione, non consentiva affatto al sindacato di avere più di un dirigente. Circa il provvedimento di trasferimento e la sua valutazione, non poteva condividersi l'assunto del giudice d'appello sia perché detto provvedimento non era stato impugnato dalla L. sia perché non rientrava tra quegli atti datoriali, assoggettabili alla disciplina dell'art. 22, atteso che l'allontanamento della L. non era definitivo ma era limitato a soli tre mesi sicché poteva, nel caso di specie, parlarsi solo di trasferta, insuscettibile per sua natura di incidere in maniera definitiva sul rapporto lavorativo e sull'esercizio dei diritti anche sindacali della L..

1.1. Il motivo è infondato e, pertanto, va rigettato.

A seguito di un accertamento in fatto, non contestabile in questa sede di legittimità, il Tribunale ha ritenuto, sulla base delle deposizioni testimoniali e della documentazione in atti, che la L. aveva svolto sin dalla sua nomina a rappresentante sindacale aziendale, e per lungo tempo senza alcuna contestazione, un ruolo attivo e propulsivo della rappresentanza dei lavoratori costituita all'interno dell'Associazione A. V..

Su tale premessa, il Tribunale ha poi qualificato come antisindacale la condotta della Associazione A. V. avendo la stessa, come detto, sempre riconosciuto alla L. le prerogative di un rappresentante sindacale aziendale ed avendo, poi, disposto il suo trasferimento senza il nulla osta richiesto dall'art. 22 L. 20 maggio 1970 n. 300.

Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale ha proceduto ad un valutazione del materiale probatorio che si sottrae a qualsiasi critica e si è attenuto a corretti principi giuridici affermando, prima, che per dirigenti delle r.s.a. devono intendersi tutti i delegati che compongono la rappresentanza sicché le prerogative di cui agli artt. 18, 22, 23 e 24 stat. lav. spettano a ciascun componente di detta rappresentanza. e precisando, poi, come il legislatore non esiga alcuna formalità nella nomina di tali componenti. Va al riguardo sottolineato come l'art. 19 stat. lav., giusta quanto osservato in dottrina, assuma un carattere definitorio volto ad identificare i soggetti titolari per legge dei diritti sindacali individuati e regolati dagli artt. 20 e segg. stat. lav., e come i soli requisiti richiesti perché si produca l'effetto della titolarità dei diritti sindacali siano dati dalla costituzione della rappresentanza sindacale aziendale ad "iniziativa dei lavoratori" e dalla circostanza che detta rappresentanza operi "nell'ambito" delle organizzazioni che rispondono ai requisiti indicati dall'art. 19 stat. lav. nel testo risultante dall'esito referendario dell'11 giugno 1995. Requisiti questi da intendersi secondo lo spirito del diritto sindacale in maniera scevra da formalismi, alla stregua delle prassi riscontrabili nella concreta dinamica delle relazioni industriali, tanto che anche il requisito dell'iniziativa dei lavoratori facenti parte dell'unità produttiva - configurante un presupposto per la nomina dei rappresentanti sindacali aziendali - debba essere inteso in senso elastico ed indeterminato si da potersi esprimere anche in un comportamento concludente dei lavoratori che nel fatti riconoscano e facciano propria la designazione proveniente dal sindacato (cfr. per riferimenti Cass. 23 maggio 1991 n. 5801).

1.2. Sempre in questa ottica volta a liberare la materia in oggetto - incentrata su di una visione sostanzialistica dell'iniziativa e dell'azione sindacale - da formalismi capaci di appesantirne l'operatività e di tradirne lo spirito, si è anche patrocinata l'applicabilità della tutela dell'art. 22 ad ogni lavoratore che, indipendentemente dalla sua posizione formale all'interno dell'organizzazione aziendale, svolga una attività tale da potersi ritenere responsabile della struttura sindacale aziendale, dominando un criterio di effettività del ruolo ricoperto dal dipendente nella struttura sindacale.

Una lettura dei dati normativi in termini non formalistici è condivisa dalla giurisprudenza, che ha infatti ripetutamente affermato che la garanzia posta dall'art. 22 dello statuto dei lavoratori - secondo cui il trasferimento del dirigente di una rappresentanza sindacale aziendale è consentito solo previo nulla osta della associazione sindacale di appartenenza - riguarda i lavoratori che, a prescindere dalla qualificazione meramente nominalistica della loro posizione nell'organismo sindacale suddetto, svolgano, per le specifiche funzioni da essi espletate, una attività tale da poterli far considerare responsabili della conduzione della rappresentanza sindacale (cfr. al riguardo: Cass. 4 luglio 1991 n. 7386; Cass. 26 gennaio 1989 n. 480; Cass. 17 marzo 1986 n. 1821).

E sempre in sede di trasferimento del lavoratore deve ritenersi - sulla base della ratio dell'art. 22 stat. lav., ed ancora una volta in una visione "non formalistica" delle garanzie sindacali - che rientri nell'ambito applicativo del suddetto articolo 22 ogni tipo di allontanamento dalla sede lavorativa che, per determinare un distacco, completo e di apprezzabile durata, dal luogo di svolgimento dell'abituale attività sindacale, sia suscettibile di produrre una lesione (anche potenziale) all'azione del rappresentante sindacale, equiparabile in termini fattuali - in ragione cioè dell'interesse leso - al trasferimento. Valutazione quest'ultima che, comportando un specifica valutazione delle circostanze che accompagnano il provvedimento datoriale, deve essere operata dal giudice di merito la cui decisione se sorretta - come nel caso di specie - da una motivazione adeguata ed improntata a retti criteri logico - giuridici, non è suscettibile di alcuna censura nel giudizio di cassazione.

2. Con il secondo motivo la ricorrente associazione denunzia violazione ed errata interpretazione dell'art. 2119 c.c. nonché errata ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. In particolare sostiene la ricorrente che, contrariamente a quanto affermato dalla Impugnata sentenza, i fatti addebitati alla L. configuravano una giusta causa di licenziamento atteso che, pur essendo stata esclusa in essi una rilevanza penale, avevano in concreto comportato discredito per l'Associazione. Ed invero, il diritto di critica, garantito ad ogni rappresentante sindacale, non può mai trasformarsi in una condotta suscettibile di provocare una lesione del decoro dell'impresa datoriale nè può concretizzarsi in accuse infondate, prive di qualsiasi riscontro ed ingiustamente pregiudizievoli all'interesse della controparte. La complessiva condotta della lavoratrice, che aveva tenuto comportamenti disciplinarmente censurabili - e che si era falsamente qualificata rappresentante sindacale aziendale ai fini di usufruire dei relativi permessi - aveva fatto venire meno il vincolo fiduciario sicché non era consentito dubitare della legittimità del licenziamento per essere il recesso sorretto da giusta causa.

2.1. Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento.

L'esercizio da parte del lavoratore - anche se investito della carica di rappresentante sindacale - del diritto di critica delle decisioni aziendali sebbene sia garantito dagli artt. 21 e 39 Cost. incontra i limiti della correttezza formale che sono imposti dalla esigenza, anche essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana. Detto esercizio, inoltre, non deve superare i limiti del rispetto della verità oggettiva e non deve tradursi in una condotta gravemente lesiva del decoro della impresa datoriale, suscettibile come tale di provocare danni irreparabili e, conseguentemente, di legittimare il licenziamento del lavoratore per giusta causa (cfr. in argomento: Cass. 24 maggio 2001 n. 7091; Cass. 16 maggio 1998 n. 4952 cui adde, con riferimento alla critica politica ed ai suoi limiti, Cass. 7 novembre 2000 n. 14485).

Nella fattispecie in esame il Tribunale ha osservato che l'affissione del volantino, diffuso tra i dipendenti dell'Associazione e che poi ha dato origine al licenziamento, per forma e contenuto non era "nulla più che una espressione di normale, usuale manifestazione di solidarietà sociale, di lecito esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, di critica espressa in toni decisi ma civili, determinati ed intransigenti ma "corretti e non violenti", risultando tra l'altro il linguaggio adottato nemmeno "particolarmente forte".

Orbene, la censura mossa alla impugnata decisione non ne contesta la logicità e neanche la congruità motivazionale. Detta decisione, pertanto, risultando rispettosa oltre che dei canoni logici anche dei principi giuridici, cui innanzi si è fatto riferimento, si sottrae in questa sede di legittimità ad ogni critica.

3. Con il terzo motivo di ricorso la Associazione denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 28 L. 20 maggio 1970 n. 300, assumendo che ai fini della configurabilità della condotta antisindacale non è sufficiente la mera obiettiva idoneità del comportamento datoriale a ledere l'attività o la libertà sindacale ovvero il diritto di sciopero, essendo altresì necessario che a tale comportamento si accompagni anche l'elemento soggettivo della intenzionalità. Nel caso di specie non v'era alcun dubbio che il comportamento aziendale della Associazione era inidoneo ad essere considerato antisindacale per essere privo dell'elemento della intenzionalità a ledere i diritti dell'Associazione, perché la decisione di intimare il licenziamento per giusta causa era basata su fatti che già il primo giudice aveva ritenuto essere di estrema gravità e tali da far venir meno il rapporto fiduciario. Per altro verso l'azione cautelare, proposta dalla Federazione Funzione Pubblica CGIL, difettava di altro requisito, ritenuto indispensabile per legittimare il ricorso ex art. 28 stat. lav., perché i fatti di causa si riferivano ai primi mesi del 1994 mentre erano stati oggetto di denunzia di antisindacalità solo in data 19 settembre 1994.

3.1. Il Tribunale di Roma ha osservato che l'applicazione di sanzioni disciplinari ingiustificata, il trasferimento ed il licenziamento adottato in assenza di una giusta causa o di un giustificato motivo assumevano un significato probante della esistenza di una condotta volta a limitare in maniera diretta ed incisiva l'esercizio da parte della Federazione Funzione Pubblica CGIL dell'attività sindacale attraverso l'atto finale del licenziamento del suo dipendente. In particolare il giudice d'appello ha osservato come nella accertata insussistenza di valide ragioni poste a sostegno della misura disciplinare, del trasferimento e del recesso, il quadro generale di chiusura alle istanze sindacali, costituzionalmente garantite, assumeva valore indicativo non certo trascurabile della intenzionale antisindacalità della condotta.

3.2. Risultando le argomentazioni del Tribunale logiche e rispettose dei principi vigenti in materia, le doglianze contenute nel terzo motivo del ricorso si appalesano anche esse infondate.

Come ha statuito questa Corte di Cassazione, per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 stat. lav. è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi cui sono portatrici le organizzazioni sindacali non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro nè nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nell'illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali) nè nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l'obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l'effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero(cfr. in tali termini: Cass. Sez. Un., 12 giugno 1997 n. 5295).

3.3. Per concludere va anche evidenziato come, contrariamente a quanto sostenuto dall'Associazione ricorrente, non possa addursi al fine di pervenire al rigetto (o all'inammissibilità) della domanda, spiegata ex art. 28 stat. lav. dalla Federazione sindacale in epigrafe, la circostanza che detta domanda sia stata proposta nel settembre 1994, a fronte di fatti accaduti nei primi mesi del 1994, e che, pertanto, nel caso di specie difettava il requisito della "attualità" della condotta antisindacale.

Al fine di rilevare l'infondatezza della censura è sufficiente ricordare che il solo esaurirsi della singola azione antisindacale del datore di lavoro non può costituire preclusione alcuna della pronunzia di un ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale. in altri termini, il procedimento di repressione dell'attività antisindacale richiede necessariamente l'attualità della condotta o presuppone che siano ancora in atto i suoi effetti lesivi della libertà ed attività del sindacato (cfr. al riguardo Cass. 2 settembre 1996 n. 8032; Cass. 5 aprile 1991 n. 3568; Cass. 3 luglio 1984 n. 3894).

Nel caso di specie la mancata reintegrazione della L. nel posto di lavoro attesta che gli effetti della condotta antisindacale della Associazione sono tuttora perduranti e, conseguentemente, legittimano l'organizzazione sindacale ad agire in giudizio ex art. 28 stat. lav.

4. Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma il 27 novembre 2002.