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lunedì 17 giugno 2013

RAPPORTO DI LAVORO NAUTICO

IL RAPPORTO DI LAVORO NAUTICO

1) SPECIALITA’ DEL CONTRATTO DI LAVORO

E’ necessario, innanzitutto, definire il rapporto di lavoro nautico al fine non solo di chiarire l’oggetto della presente trattazione, ma anche e soprattutto per evidenziare le peculiarità di tale categoria rispetto a quella di c.d. lavoro comune, le quali giustificano la specialità della relativa disciplina e i conseguenti notevoli risvolti pratici e non solo dogmatici, nel caso in cui si giunga alla considerazione che tali peculiarità vengano meno.
In sintesi la migliore dottrina accede ad una definizione generale di rapporto di lavoro nautico, comprendendo ogni genere di prestazione lavorativa che un qualsiasi soggetto effettua, a qualunque scopo, a bordo di una nave e per il servizio di questa, sia a titolo contrattuale che in via spontanea, sia a titolo gratuito che a titolo oneroso, chiunque sia il suo datore di lavoro (proprietario o armatore o soggetto terzo).
Ciò che caratterizza tali lavoratori, rispetto a quelli di diritto comune, consiste non nella prestazione, né nel vincolo di subordinazione, bensì nell’assoggettamento all’autorità di bordo, discendente dal loro automatico inserimento nell’organizzazione di bordo.
Da tale inserimento derivano, infatti, una serie di doveri e obblighi di natura pubblicistica incombenti, secondo il tradizionale dettato della legge del mare sul soggetto inserito.
Da ciò, dunque, l’unico elemento tipicizzante il prestatore di lavoro nautico, ancorché non modificante intrinsecamente il tipo e la qualità della sua specifica prestazione professionale, quello su cui si appunta la ricerca per evidenziarne il carattere discriminatorio, è di natura assolutamente pubblicistica e consiste nell’interesse dello Stato allo svolgimento del traffico marittimo, soprattutto sotto il profilo della sicurezza della navigazione e della tutela delle persone e dei beni connessi a tale traffico, nonché alla protezione ambientale. Da tale natura - dovuta alla posizione strumentale che la professione marittima ha verso lo Stato e dall’interesse statale che essa persegue - si giungeva in passato, pur se con sfumature diverse , a giustificare la specialità del rapporto di lavoro.
Va, peraltro, subito rilevato come questo interesse pubblico non sia oggi più percepito come tale da condizionare in modo assoluto il concreto svolgimento delle attività marittime, poiché l’evoluzione normativa ed una più corretta percezione della specialità ed autonomia della materia rendono possibile, ed anzi necessario in alcuni settori, bilanciare l’interesse pubblicistico con le esigenze dei soggetti privati. Così, non vi è dubbio che, ad esempio, nel settore del lavoro nautico il principio della protezione del prestatore di lavoro possa in alcune ipotesi assumere rilievo anche a fronte dell’interesse pubblico all’organizzazione a bordo della nave.
Recentemente, infatti, la giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità si è orientata in tal senso, giungendo ad attenuare fortemente la specialità del contratto di lavoro nautico.
Essa, infatti, deriva dalla specialità della sua disciplina, la quale trova il suo cardine nell’art. 1 cod. nav., il quale determina un corpo di regole esclusivo che vale anche per il lavoro subordinato (sono fonti del diritto della navigazione il codice della navigazione, le leggi, i regolamenti, le norme corporative e gli usi relativi alla materia della navigazione, in mancanza l’anlogia ed infine in ulteriore mancanza il diritto civile).
Per cui, in materia di lavoro marittimo, troverebbero applicazione in primis le norme del cod. nav. e, solo in via sussidiaria quelle di lavoro comune, qualora la ricerca analogica in ambito delle prime non abbia dato esito alcuno . Tale conclusione è stata fortemente attenuata da recenti pronunce della Corte Cost. la quale, fra l’altro, ha stabilito che poiché “talune peculiarità del lavoro a bordo hanno perduto progressivamente rilievo […] la parità di trattamento del lavoratore marittimo, rispetto a quello comune, va sempre perseguita salvo che esistano (e prevalgono) esigenze diverse che giustifichino la differenziazione di tutela: differenziazione che d’altra parte è attenuata anche dalla contrattazione collettiva.”
Bisogna ricordare l’importante principio sancito dalla Corte di Cassazione, sez. lav., sent. n. 13834 del 8 novembre 2001, ispirato alla giurisprudenza costituzionale di cui sopra, secondo il quale sebbene a norma dell’art. 1 cod. nav. in materia di navigazione l’operatività del diritto comune presupponga, salvo sia diversamente disposto, la mancanza di norme poste in via diretta o ricavabili in via di analogia dalla disciplina speciale, sussiste, tuttavia, un ampio corpo di principi applicabili senza distinzioni al rapporto di lavoro subordinato, compreso il sottotipo rappresentato dal contratto di arruolamento, per un complesso di fattori convergenti . Ciò in quanto bisogna tener conto che, pur se l’interesse alla sicurezza della navigazione e dell’equipaggio giustifica una diversa disciplina dei contenuti della subordinazione, anche nel rapporto di lavoro nautico il vincolo causale di subordinazione, inteso sia sotto il profilo personale di assoggettamento alle direttive che sotto quello tecnico e funzionale, come obbligo di coordinamento e collaborazione fra tutti i lavoratori, è comune all’impresa in generale, in quanto anche qui si caratterizza per lo scambio fra attività del prestatore svolta in posizione subordinata e la prestazione.
Infatti come stabilito dalla Corte Cost. sent. n. 96/1987 e n. 80/1994, la perdita progressiva di rilievo di talune peculiarità del lavoro a bordo, per l’avanzamento della tecnica, accompagnato dall’intensificarsi delle previsioni a tutela del lavoratore a bordo, impone l’uniformità delle discipline del rapporto di lavoro nautico e di quello comune, nella mancanza di fondate ragioni per differenziarle e della necessità di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della complessiva disciplina applicabile al lavoro nautico, nell’ambito della quale le norme speciali dettate dal codice della navigazione si intrecciano ampiamente con quelle comuni, sia per le lacune intrinseche della normativa speciale, sia per l’effetto dei numerosi interventi della Corte Cost. .

2) FONTI DEL RAPPORTO OBBLIGATORIO

Dopo i precetti costituzionali e comunitari, che si pongono ovviamente come fonti di rango primario ed, in quanto tali per ovvi motivi prevalenti anche sulle norme di carattere speciale, trovano applicazione le disposizioni del codice della navigazione e quelle di diritto alla navigazione contenute in altre leggi o esplicitamente da esse richiamate, le quali si pongono come diritto speciale. Tra tali norme non è fissato alcun criterio di preferenza in base alla loro collocazione
Tra le norme speciali si devono includere le norme contenute in convenzioni internazionali, tra le quali le convenzioni O.I.L., le quali, per espressa previsione dello stesso trattato, hanno vigore nell’ordinamento degli Stati firmatari solo se recepite e tradotte in disposizioni interne.
Il 31 maggio 1985, con la legge n. 218/85, sono state introdotte nuove norme di diritto internazionale privato, le quali hanno riformato la disciplina della giurisdizione italiana e dell’efficacia di sentenze ed atti stranieri.
Sopravvivono solo le disp. prel. al cod. nav., eccetto l’art. 9 (la legge regolatrice del rapporto di lavoro marittimo è la legge nazionale della nave, salvo se la nave è straniera, diversa volontà delle parti), sostituito dall’art. 6 Convenzione di Roma del 1980, espressamente richiamato dall’art. 57 l.n. 218/1995.
Tale articolo limita l’autonomia delle volontà delle parti nella scelta della legge regolatrice del rapporto, pèrchè il lavoratore è comunque tutelato dalle norme imperative della legge applicabile se non fosse stata effettuata la scelta, e prevede, in mancanza di scelta, che la legge applicabile è quella del luogo in cui viene normalmente prestata l’attività lavorativa, ovvero la legge in cui si trova la sede dove è avvenuta l’assunzione, qualora il lavoratore non presti abitualmente il suo lavoro in uno stesso Paese, a meno che non risulti dalle circostanze di fatto un collegamento più intenso con un altro Paese.
Dubbi sussistono per il personale navigante fra la legge nazionale della nave intesa come luogo di lavoro e la legge della sede di assunzione, pur se autorevole dottrina , considera preferibile la seconda, onde evitare i rischi di insufficiente tutela per i lavoratori utilizzati su le navi battenti la c.d. “bandiera ombra”.
Seguono, poi, le leggi in senso non formale, ossia norme regolamentari e le ordinanze, sempre se attinenti alla materia speciale. Sono disposizioni regolamentari quelle contenute all’interno del titolo IV del regolamento per l’esecuzione della navigazione marittima, sul personale marittimo e quelle contenute nel titolo IV del regolamento per la navigazione interna, sul personale navigante.
Non sono norme regolamentari, bensì un tipo particolare di contratto collettivo post-corporativo, pur se approvate con apposito decreto dal Ministero dei Trasporti, i regolamenti organici per il personale di stato maggiore navigante delle società del Gruppo Finmare.
Si discute se il termine “norme corporative” dell’art. 1 cod. nav. possa essere riferito oggi ai contratti collettivi post-corporativi. La questione è sorta circa l’interpretazione dell’art. 374 cod. nav., ovvero se i contratti post-corporativi possano o meno derogare alle disposizioni contenute in tale articolo (artt. 326, durata del contratto a tempo determinato, 336, 3 co., trattamento dell’arruolato malato o ferito, da 337 a 345, effetti del contratto e cessazione e risoluzione del contratto, da 348 a 362, diritti derivanti dalla cessazione o risoluzione del contratto), così come le norme corporative. La giurisprudenza non è univoca, da una parte si ritiene che gli odierni contratti collettivi possano derogare alle disposizioni elencate dall’art. 374, co.2, dall’altra si giunge alla soluzione opposta.
Quest’ultma sembra più convincente per due ordini di motivi:
1) I contratti collettivi non efficaci erga omnes non hanno efficacia vincolante per coloro che non abbiano aderito alle organizzazioni sindacali, mentre le norme corporative avevano efficacia e valenza generali;
2) Anche i contratti collettivi validi erga omnes, pur vincolando la generalità dei soggetti, non possono contrastare con le norme inderogabili di legge, ex art. 7 l.n. 741/1959.
Alla luce di quanto sopra affermato, le norme corporative di cui all’art. 1 cod. nav. sono da considerarsi quelle sopravvissute alla soppressione dell’ordinamento corporativo, cioè quelle relative ai rapporti di lavoro in cui manchi il presupposto della rappresentanza volontaria.
Ritornando alla portata dell’art. 374 cod. nav., esso disciplina la derogabilità delle norme, individuando tassativamente quelle che:
a) non possono essere derogate né dalle norme corporative, né dal contratto individuale di lavoro (co.1);
b) non possono essere derogate dalle norme corporative, ma possono essere derogate dal contratto individuale se a favore dell’arruolato (co.2);
c) non possono aumentare il termine previsto dal 1 e 2 co. art. 326 cod. nav. né possono diminuire il termine previsto dal 3 comma dello stesso articolo.
Gli usi e le consuetudini sono subordinati ai contratti collettivi ed individuali di lavoro e alle norme di legge, essi tuttavia prevalgono su queste se più favorevoli al lavoratore.
L’art. 1 cod. nav. prevede, derogando notevolmente all’art. 12 preleggi, l’applicazione analogica delle norme di diritto della navigazione anteriormente alla applicazione diretta delle norme di diritto civile.
Tale è da configurarsi come analogia legis riguardando espressamente le sole disposizioni di diritto della navigazione, così da non poter ritenere l’analogia iuris nella stessa posizione gerarchica della prima.
Per ciò che concerne i rapporti fra diritto comune e diritto della navigazione si deve dire che il principio per cui il primo trova applicazione solo se sia vana l’estensione analogica del secondo e se sia con quest’ultimo compatibile, ha subito attenuazioni da alcune recenti decisioni della Corte Cost. che ha ritenuto applicabile al personale marittimo le norme di cui alle leggi n. 604 del 1966 e 300 del 1970, mentre non ha ritenuto applicabile la l.n. 108 del 1990 (vedi retro par. 1).
Per ciò che riguarda i rapporti fra diritto della navigazione e la contrattazione collettiva, la giurisprudenza ha affermato che questa trova applicazione quando ad essa rinviano le norme di diritto del lavoro marittimo e le norme in materia di lavoro comune, ma che non può derogare queste.
Tuttavia per la determinazione della retribuzione è prevalente la norma collettiva su quella comune.
Fondamentale è stabilire l’applicabilità dello Statuto dei lavoratori al rapporto di lavoro nautico.
L’art. 35 (campo di applicazione) della l.n. 300/1970 prevede la diretta applicabilità al personale navigante degli artt. 1 (libertà di opinione), 8 (divieto di indagini sulle opinioni), 9 (tutela della salute e dell’integrità fisica), 14 (diritto di associazione e di attività sindacale), 15 (atti discriminatori), 16 (trattamenti economici collettivi discriminatori), 17 (sindacati di comodo).
L’art. 35, ult. co., S.L., rinvia, poi, alla contrattazione collettiva per l’applicazione indiretta delle norme contenute nella l.n. 300/1970 e non direttamente applicabili al rapporto di lavoro nautico.
Si ritengono, comunque, direttamente applicabili, a seguito delle decisioni della Corte Cost., anche gli artt. 7 (sanzioni disciplinari, pur se la Cass., sent. n. 438/84 ha ritenuto quest’ultimo applicabile solo per il principio della contestazione) e 18 (reintegrazione nel posto di lavoro) . La giurisprudenza ha ritenuto applicabile la norma processuale di cui all’art. 28 (repressione della condotta antisindacale) .
In tal modo il legislatore ha voluto demandare all’autonomia collettiva l’accertamento e l’applicazione dei principi contenuti nello Statuto e non espressamente richiamati.
Non sono applicabili l’art. 13 (mansioni del lavoratore), per espressa disciplina contenuta nell’art. 334 cod. nav., gli artt. 33 e 34 (norme sul collocamento, abrogate), perché estranei al diritto alla navigazione.
Ciò ha fatto sorgere seri dubbi di legittimità costituzionale della disposizione: da un lato, infatti, se si aderisse alla tesi espressa dalla Cassazione sent. n. 847/1989, per la quale i principi dello S.L. recepiti dei contratti collettivi vincolino anche i soggetti non aderenti ad essi, la disposizione si porrebbe in contrasto con il principio di libertà dell’organizzazione sindacale (ex art. 39 Cost.), se, invece si ritiene che non siano vincolanti nei confronti dei soggetti che non abbiano aderito ad essi allora si verificherebbe una disparità di trattamento ex art. 3 Cost..
Parte della dottrina ha ritenuto direttamente applicabili le norme che, pur non essendo menzionate dall’art. 35 St. Lav., né richiamate dalla contrattazione collettiva, stabiliscono principi fondamentali senza porre particolari problemi applicativi . Di diversa opinione chi ha ritenuto che il recepimento nella contrattazione collettiva si risolvesse in una condizione sospensiva di efficacia dei principi stessi, con conseguente inapplicabilità in caso di silenzio della contrattazione .
La Corte Cost. ha provato a risolvere tale questione con risposte che, però, sono risultate insoddisfacenti (come quella per cui ha ritenuto legittima tale norma in quanto i contratti collettivi di lavoro nel settore marittimo sono nella quasi totalità di tipo aziendale e come tali applicabili a tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro iscrizione ad un sindacato), così da far ritenere alla dottrina prevalente necessario un intervento legislativo che elimini in radice ogni dubbio.

3) I SOGGETTI DEL CONTRATTO DI ARRUOLAMENTO

L’Armatore è colui che assume l’esercizio della nave . Secondo la dottrina marittimistica, sarebbe da considerarsi armatore il soggetto che svolge una attività organizzata diretta all’esercizio di una nave, assumendone i rischi e le conseguenze.
Armatore e proprietario della nave possono anche non coincidere (art. 256 cod. nav.) e quando l’esercizio della nave viene assunto da più comproprietari, essi danno vita ad una società di armamento . In realtà esercizio della nave in senso tecnico non sempre da luogo ad esercizio dell’impresa, nel senso di cui all’art. 2195 c.c. e per converso non sempre l’armatore è imprenditore commerciale.
Il termine esercizio, così come utilizzato nella definizione di armatore, deve essere inteso nel senso di uso/impiego ovvero gestione di attività che abbia come scopo lo svolgimento della navigazione, pur se l’armatore non è considerato necessariamente imprenditore ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., cioè si prescinde dai caratteri di professionalità e finalità economica . Pertanto bisogna affermare che solo quando la nave è impiegata ed utilizzata nell’ambito di una attività organizzata professionalmente ai fini della produzione o dello scambio dei beni e servizi, tanto l’armatore quanto l’esercente assumono la qualifica di imprenditore di cui al codice civile e, scendendo nel dettaglio, la qualifica di imprenditore commerciale.
E’ ormai pacifico che armatore ed imprenditore commerciale esercente professionalmente l’industria della navigazione sono due fattispecie distinte, a maggior ragione dal proprietario, anche se molto frequentemente coincidenti in un unico soggetto.
Da ciò anche la dizione “impresa di navigazione”, così come utilizzata nel codice della navigazione, la quale ha dato origine a numerosi equivoci ed interpretazioni, riguarda il solo esercizio tecnico della nave, cioè il suo utilizzo.
Egli deve, prima di assumere tale esercizio, fare dichiarazione della sua qualità all’ufficio di iscrizione della nave stessa ai sensi dell’art. 272 cod. nav.. In caso contrario si presume armatore, fino a prova contraria, il proprietario della nave.
Piuttosto dibattuto è il significato da attribuire al termine equipaggio, non offrendone il codice della navigazione una esauriente definizione, prevedendo che esso è costituito dal comandante, dagli ufficiali e da tutte le persone arruolate per il servizio della nave. Sorge, dunque, il dubbio se si debba intendere con esso il complesso di soggetti che sono legati all’armatore della nave da un contratto di arruolamento ovvero quei soggetti che, pur non essendo legati all’armatore da un contratto di arruolamento in quanto non facenti parte della gente di mare, sono comunque imbarcati al servizio della nave.
Sembra preferibile l’opinione della migliore dottrina , che chiarisce come il legislatore utilizzi via via il termine equipaggio con significati diversi a seconda della necessità concreta.
In ogni caso dottrina e giurisprudenza distinguono fra equipaggio in senso stretto, ossia personale assunto con contratto di arruolamento, ed equipaggio in senso lato, ossia il complesso delle persone che sono imbarcate per una ragione di servizio, siano o meno iscritte nelle matricole, siano o meno alle dipendenze dell’armatore .
Il comandante è un componente dell’equipaggio (art. 895 cod. nav.), avente posizione preminente rispetto a tutte le altre persone della comunità viaggiante, occupando in linea esclusiva il primo grado dell’equipaggio, ma non ne è il rappresentante. Egli è legato all’armatore da un contratto di arruolamento. La nomina a comandante è conseguenza di un atto volontario di natura privatistica dell’armatore, il quale è però vincolato a scegliere un soggetto avente le prescritte abilitazioni (art. 292 cod. nav.).
Le sue funzioni possono riassumersi in:
1) direzione tecnica della nave (art. 295 cod. nav.);
2) gestione degli interessi privati dell’armatore (e anche, in certi casi, del vettore, del proprietario, del proprietario, dei comproprietari, consenzienti alla società di armamento, degli aventi diritto al carico);
3) qualità di capo della spedizione;
4) qualità di capo della comunità viaggiante;
5) rappresentanza legale dell’armatore (in quanto sorge direttamente per il fatto della pur volontaria preposizione al comando).
Le funzioni del quarto gruppo sono di indole esclusivamente pubblicistica, mentre nei primi tre gruppi è avvertibile una sussistenza di interesse privatistico, pur incidente con uno spiccato interesse di tipo pubblico trascendente dai meri interessi particolaristici.
Oggi il comandante della nave ha, dunque, sostanzialmente, concentrato in sè due funzioni di notevole importanza: da un lato egli è rappresentante dell’armatore, che a norma del codice ha potestà di nomina e di revoca del comando, in qualsiasi momento, dall’altro lato, costituisce centro di imputazioni di carattere pubblicistico che va al di là della rappresentanza.
Risulta difficile condividere la tesi del comandante della nave considerato tout court alla stregua di dirigente, perché la sussistenza in capo al comandante di eventuali capacità direttive, non comporta l’inquadramento del soggetto nella categoria di cui all’art. 2095 cod. civ., la cui norma si riferisce esclusivamente ai lavoratori terrestri. Da notare a tal proposito è la sentenza della Corte di Appello di Genova del 7 settembre 1999 la quale ha rilevato come “manchi, infatti, completamente al comandante di nave il potere di incidere sulla determinazione e premonizione della politica aziendale, sia essa riferita all’intera impresa, sia invece limitata al ramo di azienda ipoteticamente identificabile con la nave”.
Devesi anche considerare che i poteri e i doveri del comandante della nave, trascendono una funzione meramente dirigenziale, trovando piuttosto la loro fonte primaria più nella legge che nel contratto.
Bisogna, a questo punto, puntualizzare le caratteristiche peculiari del dirigente d’azienda, specificando che tale qualifica è solo astrattamente definita dal cod. civ., ma è scaturita soprattutto dai contratti collettivi, dall’inquadramento sindacale e dalla giurisprudenza (talvolta contrastante) della Suprema Corte.
Preliminarmente bisogna ammettere che sarebbe erroneo voler prestabilire in linea astratta e precisa i requisiti di un dirigente-tipo per tutte le imprese, tanto molteplici e varie sono le particolarità e reali situazioni che le attività produttive e le organizzazioni delle imprese possono presentare . Ciò trova conferma nell’art. 2095 cod. civ., il quale non dà una precisa nozione di dirigente, nozione che sarebbe risultata imprecisa.
Volendo tracciare dei criteri di orientamento che possono servire da guida, pur non essendo rigidi ed immutabili, né necessariamente tutti coesistenti, gli elementi concorrenti più rilevanti per la identificazione del dirigenti sono:
1) collaborazione immediata con l’imprenditore;
2) carattere spiccatamente intellettuale e fiduciario di tale collaborazione;
3) ampio potere di autodeterminazione, nell’ambito dei fini dell’azienda e delle direttive dell’imprenditore;
4) superiorità gerarchica su tutto o su un vasto gruppo del personale addetto all’azienda;
5) subordinazione esclusiva verso l’imprenditore o chi immediatamente lo rappresenta;
6) responsabilità diretta verso l’imprenditore;
7) rappresentanza intra o anche extra aziendale, generale o limitata.
Invece, l’impiegato di prima categoria con funzioni direttive esaurisce i propri compiti nella cura del particolare ramo del servizio cui è preposto, onde la sua posizione gerarchica, i suoi poteri e le sue responsabilità hanno rilevanza più modesta tanto nei riflessi dell’impresa interni, quanto nei rapporti con i terzi. Quindi, come già osservato, la funzione tipica ed i corrispondenti poteri-doveri del comandante tesi al perseguimento di fini ed interessi non soltanto di carattere meramente privatistico, ma pubblicistico , se per un verso sono assimilabili a quelli del dirigente, tuttavia sono ben più ampi e penetranti, non potendo trovare loro fonte nell’art. 2095 cod. civ..
Ciò soprattutto in quanto la materia è esaustivamente regolata dall’art. 115 cod. nav., che definisce le categorie, e dagli art. 248 ss. reg. nav. mar., che definiscono i titoli professionali e le qualifiche.
Ha, però, per così dire aperto una breccia alla equiparazione del comandante al dirigente la sentenza n. 6448 della Corte di Cass., sez. lav., del 6 maggio 2002, nel caso in cui vengano a lui affidati oltre ai compiti derivanti dalla legge, anche quelli attinenti alla gestione economica dell’azienda, in modo che egli non sia solo il responsabile della nave e dell’equipaggio durante la navigazione, ma possa incidere sugli obiettivi dell’impresa, per cui il comandante potrebbe essere o non essere dirigente a seconda dei poteri conferitigli dall’armatore, con riferimento alle mansioni corrispondenti alla categoria legale di dirigente.
Nella medesima sentenza la Suprema Corte ha inoltre ritenuto che l’esistenza di un contratto collettivo di lavoro

L’art. 115 cod. nav. divide la gente di mare in tre categorie:
- Personale di stato maggiore e di bassa forza addetto ai servizi di coperta, di macchina ed in genere ai servizi tecnici di bordo;
- Personale addetto ai servizi complementari di bordo;
- Personale addetto al traffico locale ed alla pesca costiera.
Tale classificazione è sostitutiva di quella contenuta nell’art. 2095 c.c..
Gente di mare è, dunque, da considerarsi tutto il personale idoneo a svolgere le proprie prestazioni a bordo di navi, comprese quelle minori.
Personale di stato maggiore è quello rivestito del carattere dell’ufficialità a bordo (comandante, direttore di macchina, ufficiale di coperta o di macchina, ufficiali commissari, ufficiali medici, cappellani).
I servizi di coperta riguardano sia l’attività nautica che quella commerciale (es. carico e scarico merci).
Personale addetto ai servizi complementari di bordo è quello addetto ai servizi utili a bordo (cuochi, camerieri, infermieri, medici, parrucchieri…), la cui attività è considerata marinara solo perché prestata a bordo.
Personale addetto al traffico locale è quello adibito al movimento che avviene nell’ambito portuale e nelle relative adiacenze.
Personale addetto alla pesca costiera è quello che presta la propria attività su navi da pesca.
Il personale della navigazione interna (art. 130 cod. nav.)è diviso in tre categorie:
a) personale di comando;
b) personale addetto ai servizi complementari di bordo;
c) personale addetto alla piccola navigazione.
All’organizzazione amministrativa e alla disciplina del personale marittimo provvede l’amministrazione della marina mercantile (art. 113 cod. nav.).
La gente di mare e il personale della navigazione interna sono iscritti in matricole, la quale costituisce il presupposto necessario alla legittima nascita e permanenza del rapporto di lavoro nautico.
I requisiti per l’iscrizione sono:
a) la cittadinanza italiana, alla quale è equiparata quella europea;
b) l’età non inferiore a 15 anni e non superiore a 25, per i medici non deve superare ai 45 anni:
c) l’idoneità fisica alla navigazione.
E’ punito con ammenda l’armatore che ammetta nell’equipaggio soggetto non iscritto nelle matricole (art. 1178 cod. nav.), mentre lo svolgimento dell’attività non si ritiene costituisca reato di abusivo esercizio della professione.
Dal punto di vista del rapporto lavorativo, invece, la mancata iscrizione comporta:
a) risoluzione del contratto di arruolamento ex art. 343, n. 7 cod. nav.;
b) inefficacia dell’attività prestata al fine del conseguimento di titoli professionali e delle prestazioni previdenziali,
c) efficacia delle prestazioni nel periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione ex art. 2126 c.c. (applicabile per analogia).
La gente di mare è munita di uno speciale documento di lavoro: il libretto della navigazione (art. 220 reg. nav. int.). Esso vale, a tutti gli effetti di legge, come libretto di lavoro per il servizio prestato e come passaporto per le esigenze connesse all’esercizio della professione marittima .
Su tale libretto sono riprodotte le annotazioni della matricola (art. 222 reg. nav. int.) e quelle dei movimenti di imbarco e sbarco (art. 223 reg. nav. int).
In particolare, mentre nel diritto comune l’annotazione sul libretto di lavoro avviene ad opera del datore di lavoro, nel diritto della navigazione tale operazione è effettuata dalla P.A. a cui deve essere comunicati i movimenti di imbarco e sbarco entro 15 giorni (art. 226 reg. nav. int.).
Ai fini della qualificazione del personale bisogna distinguere tra titolo professionale, qualifica e mansioni da esplicare a bordo (art. 170, n. 5 cod. nav.).
Il primo consiste nella abilitazione conseguita presso la P.A. a svolgere determinate attività a bordo, esso, dunque esprime l’attività che in astratto può essere svolta, a differenza del grado che invece esprime la posizione occupata nella gerarchia di bordo (art. 321 cod. nav.) . La qualifica, invece, identifica la posizione del lavoratore nella gerarchia dei prestatori d’opera, a differenza del titolo professionale .

Segue. Procedimento disciplinare
Fra gente di mare e P.A. si instaura un rapporto di supremazia speciale che giustifica il potere disciplinare della seconda nei confronti dei primi.
Esso è un potere di carattere pubblicistico, il quale coinvolge anche il comandante che, quando l’esercita agisce in sostituzione degli organi dello Stato e non dell’armatore o del proprietario .
Dalla natura pubblicistica di tale potere discende l’importante conseguenza che il marittimo è titolare di un interesse legittimo e non di un diritto soggettivo, con relativa competenza in caso di controversia del Consiglio di Stato. Anche l’imprenditore possiede ai sensi dell’art. 2106 cod. civ. e art. 7 St. Lav. un potere disciplinare, di carattere privatistico.
I procedimenti sono ovviamente distinti. Il primo, il quale può comportare inibizione dall’esercizio della professione, cancellazione dalle matricole o dai registri di iscrizione, deve essere preceduto, a pena di nullità, dalla contestazione degli addebiti mediante raccomandata a/r e nella quale deve essere esposto sommariamente il fatto (art. 513, co. 1, reg. nav. int.). L’invito deve contenere l’assegnazione di un termine non inferiore a 15 giorni, entro il quale l’interessato può prendere visione degli atti e inviare giustificazioni e prove a sua discolpa. Segue, a pena di nullità, un parere delle associazioni sindacali interessate e, infine, il provvedimento.
L’apertura di una istruzione formale per un delitto compiuto dal lavoratore può comportare la sua sospensione e l’eventuale proscioglimento, salvo se esso è avvenuto perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, non impedisce l’inizio o la prosecuzione del procedimento disciplinare.