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giovedì 6 febbraio 2014

Proroga giorno festivo dei termini "a ritorso" - non sussiste

Tribunale di Milano - sez. lavoro - sentenza del 09.05.2013
OMISSIS
Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con ricorso al Tribunale di Milano, quale Giudice del Lavoro, depositato in data 21/2/2013, MI.VI.SA. ha convenuto in giudizio AZ.OS. DI MILANO (di seguito per brevità OS.NI.) per l'accertamento della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro a tempo determinato sottoscritti tra le parti, la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato con la condanna del convenuto a riammetterlo in servizio e a risarcirgli il relativo danno; con vittoria di spese.

Si è ritualmente costituito in giudizio OS.NI. contestando in fatto e in diritto l'avversario ricorso; con vittoria di spese.

Il ricorso, negli stretti limiti e per i motivi di seguito esposti, è fondato.

Preliminarmente va disattesa l'eccezione di parte ricorrente circa la non tempestività della costituzione del convenuto sul presupposto che il termine per costituirsi dell'ospedale cadeva nella giornata di sabato e che quindi la costituzione avrebbe dovuto essere effettuata il precedente venerdì.

A tale proposito sia sufficiente richiamare l'orientamento della giurisprudenza di legittimità su tale punto pienamente condivisa dal giudicante: L'art. 155, quinto comma, cod. proc. civ. (introdotto dall'art. 2, comma 1, lettera f), della legge n. 263 del 2005), diretto a prorogare al primo giorno non festivo il termine che scada nella giornata di sabato, opera con esclusivo riguardo ai termini a decorrenza successiva e non anche per quelli che si computano "a ritroso", con l'assegnazione di un intervallo di tempo minimo prima del quale deve essere compiuta una determinata attività, in quanto, altrimenti, si produrrebbe l'effetto contrario di una abbreviazione dell'intervallo, in pregiudizio con le esigenze garantite con la previsione del termine medesimo (nella specie, la S.C., premesso che la disposizione invocata non assumeva comunque rilievo, applicandosi solo ai giudizi instaurati successivamente al 1 gennaio 2006, mentre la notifica del ricorso per cassazione risaliva al 2004, ha escluso, in applicazione del principio enunciato in massima, la tempestività della produzione di una memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ.) (Cass. n. 11163 del 07/05/2008).

Nel merito MI.VI.SA. ha lavorato per OS.NI. in forza di una serie di contratti a tempo determinato (sempre con inquadramento nel ruolo sanitario e profilo di collaboratore professionale sanitario - tecnico sanitario di radiologia medica categoria D) senza soluzione di continuità dal 16 febbraio 2009.

Salvo il primo contratto (che richiamava l'articolo 17, comma 1 lett. D C.C.N.L. di settore ove si individua quale causale la temporanea copertura dei posti vacanti nei singoli profili professionali per un periodo massimo di otto mesi, purché sia già stato bandito il pubblico concorso o sia già stata avviata la procedura di selezione per la copertura dei posti stessi) gli altri contratti richiamavano unicamente l'articolo 1 D.lgs 368/01 nonché le relative deliberazioni del Direttore generale dell'azienda.

Nel presente giudizio parte ricorrente ha contestato la legittimità di tali contratti sotto il profilo formale e sostanziale.

Tanto detto si rileva che, come documentato dall'ospedale convenuto, la deliberazione relativa alla necessità di copertura dei posti vacanti di operatore professionale sanitario risale al 4/9/2001.

Dalla stessa memoria dell'ospedale convenuto si evince chiaramente che il ricorrente veniva assunto sulla base di tale deliberazione così come tutte le successive proroghe del rapporto avevano quale ragioni giustificatrice quella di garantire la continuità dell'attività svolta dagli interessati le strutture di assegnazione in attesa di poter coprire la posizione organizzativa mediante risorse assunte a tempo indeterminato.

Tuttavia è evidente che la scelta dell'ospedale si pone in evidente contrasto con la previsione del C.C.N.L. di settore sopra richiamata giacché, laddove la norma in esame prevede la possibilità di una temporanea copertura dei posti vacanti limitandola peraltro ad un periodo massimo di otto mesi, sostanzialmente inibisce ciò che al contrario ha caratterizzato le scelte dell'ospedale (ovvero le proroghe dei rapporti se non nei limiti degli otto mesi nel caso di specie pacificamente superati).

In altri termini solo il primo contratto risulta davvero rispettoso della norma collettiva (proprio perché contenuto nei limiti temporali dalla stessa previsti), laddove il secondo contratto (giustificato sulla base della medesima norma) si pone al di fuori della stessa, visto che non sono previste deroghe temporali ulteriori.

Ne deriva quindi la nullità del termine apposto ai contratti in esame (salvo, per quanto detto, il primo).

Tanto detto, quanto alle conseguenze, si rileva che l'art. 36 D.lgs 165/2001 (pacificamente applicabile al caso di specie non essendovi dubbi in causa circa la natura di PA dell'ospedale convenuto), nella versione attuale così come risultante, così prevede:

1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall'articolo 35.

2. Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoroa tempo determinato, dei contratti di formazione e lavoro, degli altri rapporti formativi e della somministrazione di lavoro ed il lavoro accessorio di cui alla lettera d), del comma 1,dell'articolo 70 del medesimo decreto legislativo n. 276 del 2003, e successive modificazioni ed integrazioni, in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, dall'articolo 3 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1984, n. 863, dall'articolo 16 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 per quanto riguarda la somministrazione di lavoro, nonché da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina con riferimento alla individuazione dei contingenti di personale utilizzabile. Non é possibile ricorrere alla somministrazione di lavoro ed il lavoro accessorio di cui alla lettera d), del comma 1, dell'articolo 70 del decreto legislativo n. 276/2003, e successive modificazioni ed integrazioni per l'esercizio di funzioni direttive e dirigenziali.

3. Al fine di combattere gli abusi nell'utilizzo del lavoro flessibile, entro il 31 dicembre di ogni anno, sulla base di apposite istruzioni fornite con Direttiva del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, le amministrazioni redigono, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, un analitico rapporto informativo sulle tipologie di lavoro flessibile utilizzate da trasmettere, entro il 31 gennaio di ciascun anno, ai nuclei di valutazione o ai servizi di controllo interno di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, nonché alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica che redige una relazione annuale al Parlamento. Al dirigente responsabile di irregolarità nell'utilizzo del lavoro flessibile non può essere erogata la retribuzione di risultato.

4. Le amministrazioni pubbliche comunicano, nell'ambito del rapporto di cui al precedente comma 3, anche le informazioni concernenti l'utilizzo dei lavoratori socialmente utili.

5. In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l'obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi dell'articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di valutazione dell'operato del dirigente ai sensi dell'articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286. 5-bis. Le disposizioni previste dall'articolo 5, commi 4-quater, 4-quinquies e 4-sexies del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 si applicano esclusivamente al personale reclutato secondo le procedure di cui all'articolo 35, comma 1, lettera b), del presente decreto.

Ritiene il giudicante che tale previsione non si ponga in contrasto con la Direttiva 1999/70/CE, così come invece sostenuto da parte ricorrente.

A tali fini giova richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria a mente della quale l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che figura in allegato alla direttiva 1999/70, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un'altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico (Causa C-53/04, Ma.-Sa.).

Il principio è stato ulteriormente ribadito dalla Corte, con specifico riferimento proprio all'art. 36 D.lgs 165/01, nell'ordinanza Af. (C-3/10).

D'altra parte, a conferma della correttezza di tale impostazione (e fermo quanto si dirà infra in punto di risarcimento danni) non si può che ribadire la specialità della norma in commento, ed evidenziarsi altresì che la stessa trova la propria ragion d'essere nell'art. 97 Cost. non solo con riferimento alla necessità di concorso pubblico per l'accesso nelle pubbliche amministrazioni ma anche in comprensibili necessità di trasparenza dell'attività amministrativa che, diversamente, rischierebbero di essere facilmente raggirabili per il tramite di un uso distorto della contrattazione flessibile.

Accertata l'illegittimità del termine apposto ai contratti a tempo determinato per cui è causa (salvo, per quanto detto, il primo rapporto), occorre ora soffermarsi sulle conseguenze di tale accertamento.

Si è già ampiamente argomentato circa il divieto di conversione del contratto di cui all'art. 36 D.lgs 165/01.

Resta quindi da approfondire la misura del risarcimento danni che la medesima norma da ultimo citata prevede debba essere comunque riconosciuta al lavoratore.

È noto come su tale specifico aspetto la giurisprudenza di merito abbia proposto le soluzioni più varie, imponendosi uno sforzo interpretativo per l'assenza di alcun criterio specifico previsto dalle fonti normative.

Soccorre comunque il principio generale in più occasioni affermato dalla giurisprudenza comunitaria secondo cui spetta alle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte ad una siffatta situazione, misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro (cfr. sentenza della Grande Sezione, causa Ad., C-212/04, punto 94).

Delle possibili soluzioni proposte dalla giurisprudenza di merito, il giudicante ritiene di non condividere quelle che richiamano quale parametro per la determinazione del risarcimento l'art. 18 SL ovvero l'art. 8 L. 604/66.

In entrambi i casi, infatti, difetta il presupposto stesso per ritenere applicabili tali norme, vale a dire il licenziamento del lavoratore, e la conseguente possibilità di interpretare estensivamente la disciplina ai fini del presente giudizio.

D'altra parte di recente è entrata in vigore la L. 183/2010 la quale, all'art. 32, comma 5, ha previsto che nel caso di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

E' senza dubbio vero che anche tale criterio si presta all'obiezione che nel caso di specie non vi sarebbe la conversione del rapporto che, in uno con il risarcimento danni, porta nell'ottica legislativa a un pieno ristoro delle ragioni del lavoratore.

È d'altra parte altrettanto vero che nel caso di specie la conversione risulta inibita da una disposizione speciale di legge e che non vi sono ragioni per ritenere che, fermo tale ultimo aspetto, la misura risarcitoria prevista dall'articolo in commento non comporti un effettivo ristoro del danno subito; ciò inoltre considerando che parte ricorrente, nel proprio ricorso (e salvo quanto si dirà circa il riconoscimento delle differenze retributive per l'anzianità maturata) non ha allegato ulteriori elementi in forza dei quali potersi ritenere dovuto un risarcimento in misura superiore.

Ciò detto, e facendo valere i criteri di cui alla L. 604/66 espressamente richiamati dal citato articolo 32 (e considerato che evidentemente il giudizio in punto di danno non - potrà che essere equitativo), nel caso di specie non si può che valorizzare la significativa durata dei rapporti (36 mesi) e la non contestata dimensione occupazionale dell'ospedale convenuto.

Pertanto il giudicante ritiene equo riconoscere al ricorrente un risarcimento nella misura di 6 mensilità della retribuzione (indicata in Euro 2502,31 senza che parte convenuta abbia contestato la circostanza) e così per complessivi Euro 15.013,36, oltre interessi dalla sentenza al saldo effettivo.

Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

Sentenza esecutiva.

P.Q.M.

accerta e dichiara l'illegittimità del termine apposto al contratto sottoscritto tra il ricorrente e l'ospedale convenuto in data 16/10/2009 nonché dei termini apposti ai contratti successivamente sottoscritti e per l'effetto condanna il convenuto a risarcire alla parte ricorrente il relativo danno determinato in complessivi Euro 15.013,36 oltre interessi di legge;

respinge per il resto il ricorso;

condanna il resistente a risarcire alla parte ricorrente le spese di lite che liquida in complessivi Euro 1.500,00, oltre accessori;

riserva il termine di giorni 15 per il deposito delle motivazioni della sentenza.

Sentenza esecutiva.

Così deciso in Milano il 9 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2013.